"Il congresso del Pd e l’ubriacatura di Hobbes"

SE PER UN MESE IL PD FACESSE I CONTI CON THOMAS HOBBES, ANZICHÉ CON LE PROPRIE BEGHE INTERNE, il suo cammino verso il congresso risulterebbe – almeno filosoficamente – un po’ più interessante. C’è stata, infatti, un’ubriacatura hobbesiana da cui sarebbe bene risvegliarsi. Non da Hobbes, la cui lezione è sempre utile, ma dall’ubriacatura, sì, è bene liberarsi.
Almeno per tre ragioni.
Michele Nicoletti, "L'Unità", 20 giugno 2013


La prima ragione è la rimozione della «coscienza storica»
che era uno dei tratti più significativi della cultura politica italiana. Dall’antica Roma a Machiavelli, da Vico a Rosmini e Mazzini, da Croce a Gramsci, da Moro a Berlinguer la politica è stata concepita come azione storica. Storico il pensiero politico, storiche le azioni politiche, storico il farsi del diritto e delle istituzioni. Anche la coscienza storica ha avuto i suoi eccessi: c’è stata anche un’ubriacatura di storicismo e la sottovalutazione di altri saperi nell’approccio alla politica. Ma ora siamo passati all’estremo opposto.
 Da bravi «hobbesiani» la politica ci viene oggi presentata come opera di un’astratta ragione calcolatrice. Si pensa che la Costituzione possa nascere da cervelli pensanti rinchiusi in una stanza dimenticando che le assemblee Costituenti americana o francese, italiana o tedesca hanno scritto le Carte fondamentali dopo lotte e rivoluzioni, guerre e resistenze, anni di oppressione o liberazione. I concetti di «sovranità popolare», «Parlamento», «libertà di coscienza» si sono forgiati in quella storia. La via prevista dai Costituenti all’art. 138 non era solo il frutto della loro volontà di «irrigidire» la Carta, ma era espressione di una concezione della Costituzione come insieme di norme e di pratiche, di dottrine e interpretazioni, di giurisprudenza e revisione, che si modifica a piccoli passi, adattandosi alla mutevole realtà sociale, per via di emendamenti. La coscienza storica non impedisce l’apertura al nuovo. Al contrario. Chi legge i discorsi di Moro o Berlinguer sulla contestazione giovanile degli anni ’60 e ’70 trova un’apertura al nuovo e una curiosità di cui oggi v’è ben poca traccia. Il Berlinguer che diceva ai giovani «entrate e cambiateci» non viveva certo di nostalgia della politica dei bei tempi andati e non si lasciava andare alle prediche moralistiche oggi dominanti. La storia non è solo quella alle nostre spalle, ma anche quella davanti a noi: la novità sempre possibile.

La seconda ragione è antropologica.
All’homo homini lupus di Hobbes, qualunque segretario del Pd (di circolo o nazionale) potrebbe aggiungere la glossa democraticus democratico lupissimus. Ma il punto non sta solo nella natura rissosa dei democratici che non sopportano la vita pacifica e, come l’uomo pascaliano, dopo un mese di governo – res dura l’amministrazione, vuoi mettere la Grande Politica? – già si annoiano e in cerca di divertissement si danno alla caccia, al gioco o alla guerra. Eterni ragazzi della via Pal. Il punto sta nel paradigma antropologico dell’atomismo individualistico hobbesiano, secondo cui senza sottomissione a un sovrano non c’è società. Non ci sono soci.
Anche nel Pd sembrano non esserci «soci». Solo iscritti o elettori al seguito di questo o quel capo. Si ritiene che il popolo non si formi sulla base di relazioni orizzontali tra le persone che mettono i propri interessi, i propri valori e le speranze gli uni nelle mani degli altri, ma si costituisce nella promessa di fedeltà verticale a un Leviatano. In un colpo ci siamo congedati da Aristotele, Tommaso, Marx e il personalismo sociale, insomma da tutta l’antropologia relazionale. Non è certo compito di un partito darsi un’antropologia. Ma è difficile negare che tanti articoli della nostra Costituzione sono anche il frutto dei dialoghi tra Giorgio La Pira, Concetto Marchesi e Lelio Basso, alle cui spalle c’era la tradizione dell’umanesimo relazionale e civile «italiano» che era il sostrato pre-politico di tanti costituenti. Non proprio l’antropologia hobbesiana per capirci.
Infine ci si potrebbe liberare dal monismo di Hobbes. Quanta mistica unitaria nei nostri discorsi. La Chiesa, lo Stato, il Partito, la Politica, sempre tutto al singolare e maiuscolo. E quanto poco spazio al pluralismo religioso e sociale, al repubblicanesimo e al federalismo. Eppure le tradizioni cristiane, liberali, socialiste hanno saputo pensare la politica e la società come luoghi della pluralità irriducibile. E hanno custodito una sana diffidenza nei confronti della mistica delle unioni umane e dell’illusione che vi possa essere una società con una «direzione politica». In questa idea di una «guida» politica della complessità fa capolino di nuovo il razionalismo astratto, l’idea che si possa esercitare una «egemonia» sulla realtà sociale (idea mai tramontata non solo tra i leninisti maanche tra qualche riformista a cui scappò di usare il termine «egemonia » come sinonimo di «vocazione maggioritaria»).

Ma il compito della politica oggi non è piuttosto quello di far vivere la libertà e fiorire la pluralità entro un orizzonte di giustizia?
E dunque il tema è: pensare un universo plurale in cui ci stanno e le persone e le formazioni sociali, e i partiti e i movimenti e le istituzioni, e gli Stati e le culture. Oggi un partito deve pensarsi dentro questa pluralità irriducibile di coscienze, associazioni, istituzioni che lo costituiscono e lo trascendono, accettando fino in fondo la propria natura strumentale ossia il proprio essere per altro. La storia del Novecento è in gran parte la storia di forme di partito (dal totalitarismo alla partitocrazia) che non hanno accettato il loro limite radicale. Forse tutto questo non è roba da congresso, si dirà, e a ragione. Ma qualche volta discutere sulle questioni radicali aiuta ad aprire qualche buona prospettiva politica.