Una riflessione sulla proposta di legge in materia di federalismo fiscale approvata al Senato lo scorso 20 aprile. Mattia Celva, 19 maggio 2009
Una tradizione giacobino-napoleonica, che in virtù delle vicende che hanno interessato la nostra Penisola a cavallo tra Settecento ed Ottocento ha avuto facile veicolazione in Italia, ha voluto leggere il concetto di «eguaglianza» in termini di «uniformità». Il che, banalizzando, significa ritenere di potere e dovere trattare allo stesso modo situazioni tra loro diverse e difformi. Questo criterio è stato tuttavia superato da una norma che potrebbe perciò dirsi forse dirompente, a livello culturale e politico oltre che giuridico: l'articolo 3, comma 2°, della Carta costituzionale della Repubblica italiana, dove quel medesimo principio di «eguaglianza» viene considerato nel suo aspetto sostanziale, con il riferimento a circostanze «di fatto», piuttosto che a situazioni ipoteticamente uguali. Con l'introduzione di questo principio (non a caso detto di «eguaglianza sostanziale») la visione «uniformista» è stata abbandonata in favore del criterio di «equità».
Questa fondamentale diversità di impostazione non ha però informato di sé, fin da subito, l'impianto statale descritto dalla Costituzione: perché l'equità fosse istituzionalmente assunta a perno regolatore dei rapporti finanziari tra i vari livelli statali si sarebbe dovuta attendere la riforma del Titolo V della Costituzione, intervenuta con legge costituzionale 3/2001, la quale ha modificato, per quel che in questa sede primariamente importa, anche l'articolo 119 della Carta.
La diversa formulazione di questa norma, unica peraltro di quella riforma a raccogliere un diffuso (ancorché non unanime) consenso, ha inteso introdurre un nuovo sistema dei rapporti finanziari tra Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni, nel senso di introdurre un assetto che, contrariamente al precedente, rispondesse all'esigenza di riservare trattamenti difformi a situazioni diverse, incoraggiando al contempo un meccanismo di responsabilizzazione.
La natura del nuovo testo dell'articolo 119 in discorso è quindi incentrata sulle idee di solidarietà e responsabilità, riguardate secondo un'ottica perequativa. Orbene, l'ultimo intervento legislativo sul cosiddetto federalismo fiscale, approvato dal Senato il 29 aprile scorso, altro non è che un provvedimento in attuazione del suddetto articolo 119. Il Senato ha inteso muoversi seguendo principalmente due direttrici: da una parte, il decentramento delle competenze; dall'altra, un nuovo assetto nel finanziamento degli Enti decentrati. Il tutto, volendo offrire una schematizzazione complessiva e sommaria, mediante due espedienti. In primo luogo viene posta in evidenza l'attribuzione agli Enti di una maggiore autonomia, che viene loro riconosciuta in cambio, se così si può dire, di una maggiore responsabilizzazione: ma se il criterio attraverso il quale muoversi per raggiungere questo scopo era la perequazione, va notato come invece il ruolo di questa sia compresso a causa del consistente affidamento allo strumento degli standard. In secondo luogo, il Senato ha inteso creare un sistema di finanziamento e di perequazione distinti sulla base delle funzioni svolte dalle Regioni (e dalle Province Autonome): tali funzioni vengono suddivise in due grandi categorie, a seconda rispettivamente del maggiore o minore livello di perequazione, ma per quanto attiene alle funzioni della seconda di queste categorie, il criterio di riferimento, più che dai dati di fatto emergenti dalle diverse esigenze delle varie aree del Paese, è desunto dai soli dati fiscali, con riferimento alle basi imponibili. Al di là degli elementi di sofferenza fin qui evidenziati, che sono peraltro stati messi in evidenza anche durante un seminario sul tema promosso da un'associazione studentesca e tenutosi presso l'Università di Bologna il 6 aprile scorso, certamente molti altri punti del testo approvato dal Senato possono essere oggetto di critiche, naturalmente differenti a seconda della sensibilità dell'interprete. Se però un giudizio si dovesse dare su questo disegno di cosiddetto federalismo fiscale, ritengo che questo possa essere sostanzialmente positivo. Per più di una ragione. Non è innanzitutto semplice legiferare in una materia complessa come quella dei rapporti finanziari intrastatali, e soprattutto è difficile farlo quando si opera in un contesto complesso come quello determinato dalla presenza, sul territorio italiano, di Regioni e Province a Statuto speciale, di vari livelli istituzionali con esigenze diversissime ed in un quadro in cui è già esistente una forma di decentramento sociale e redistributivo. In seconda battuta, deve essere messo in evidenza come gli interventi più radicali, originariamente presenti nella proposta di cui qui si tratta, siano stati smussati, se non eliminati, durante l'iter parlamentare della legge. In terzo luogo, molti interventi sul testo hanno contribuito a migliorarlo attivamente rispetto alla sua struttura originaria: risulta importante, ad esempio, l'introduzione, incoraggiata soprattutto dal Partito Democratico, di una Commissione di vigilanza che in un contesto composito come quello poco sopra descritto può risultare fondamentale in ordine ad una corretta attuazione della legge; oppure ancora, emerge l'accoglimento della proposta, avanzata anche in questo caso dal Pd, della previsione del patto di convergenza, che permetterà di offrire una più autentica impostazione perequativa della riforma e, inoltre, di incoraggiare una gestione attenta e responsabile del patrimonio da parte degli Enti decentrati.
Resta da vedere se e come il testo verrà approvato dalla Camera dei Deputati e se e come si delineeranno i necessari e determinanti interventi attuativi, che dovrebbero teoricamente portare la legge a regime entro il 2016.
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