«Più lavoro per i giovani»

Fa un gesto con le mani e abbozza un ghigno, Enrico Letta, alle prime domande di Ferruccio de Bortoli e Tito Boeri. Come dire: cominciamo bene. Ma è giusto un attimo, il tempo di scaldarsi. Perché in un auditorium stracolmo il presidente del Consiglio ingrana subito la marcia e in un’ora e mezza esatta, come prevede il format, seppellisce letteralmente il pubblico di dichiarazioni e risposte. Che in pochi istanti intasano tutti i maggiori siti d’informazione. L’Europa, la crisi economica, le riforme: Letta non dimentica nulla.
P. Morando, "Trentino", 3 giugno 2013

E pur senza scadere nello stile talk-show, si concede anche un paio di battute buone per alimentare il teatro quotidiano della politica italiana. Come quella su Renzi, al cui giudizio sul suo governo, definito un po’ troppo “democristiano”, il premier replica asciutto: «Non ho nulla da rispondere». Per poi aggiungere, quasi chiamando l’applauso: «Sono il primo tifoso di Matteo, ha solo il difetto di essere di Firenze mentre io sono di Pisa...».
Il quadro europeo. Inizia da qui, Letta, con una certa passione. Dicendosi preoccupato della tenuta dell’Unione, percepita dai cittadini come lontana. E dunque vissuta con «rassegnazione e animosità», più che per colpa delle politiche di rigore degli ultimi anni «per una politica della non-Europa che abbiamo avuto in passato: negli Stati Uniti si prendono decisioni in tempo reale, in Europa questo è impossibile perché la sua architettura non lo permette». E per evitare che si diffonda ovunque il virus della Grecia, dove la democrazia è nata «ma è stata messa sotto da decisioni di altri organismi», indica nei prossimi 18-24 mesi un passaggio decisivo per trasformare l’Unione «in uno strumento di sovranità condivisa». E le prossime elezioni europee saranno importanti come mai finora, perché «se non ci sarà una svolta ci ritroveremo con il Parlamento più antieuropeo della storia». Dunque elezione diretta del presidente della Commissione, un ministro europeo dell’economia che orienti le politiche dei singoli Paesi, un responsabile della politica estera più forte dell’attuale “mister Pesc”. Ma anche un esercito comune, che consentirebbe di ridurre le spese militari. E in questo ambizioso ridisegno delle istituzioni dell’Unione, proprio l’Italia potrebbe esercitare un ruolo chiave, quando nel secondo semestre del prossimo anno ne assumerà la presidenza.
La finanza pubblica. Letta ci arriva sull’abbrivio dell’uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivo. Che non va letta come un “liberi tutti”. Ma effetti positivi ne avrà senz’altro. Primo, l’auspicata discesa dei tassi d’interesse: il che, rendendo meno costoso il pagamento del debito pubblico, potrebbe anche schiudere le porte ad abbassamenti delle tasse. Secondo, una minore incidenza sui bilanci italiani del cofinanziamento europeo, con possibilità di accantonare maggiori risorse «per politiche produttive in grado di creare lavoro». Terzo, e soprattutto: «Ai prossimi vertici europei non saremo più gli ultimi della classe e potremo chiedere di passare finalmente dalle dichiarazioni di principio alle decisioni concrete». Sulla spending review, invece, l’annuncio di una cabina di regia a Palazzo Chigi e di una imminente (e inedita) convocazione della Conferenza Stato-Regioni sul tema.
La disoccupazione giovanile. È il vero cruccio del premier. Che annuncia quanto chiederà al prossimo vertice dell’Unione il 27 e 28 giugno: più soldi per combatterla. E ai partner europei, per spronarli, presenterà un Piano nazionale per l’occupazione, con cui cercare di portare sotto al 30 la percentuale di giovani disoccupati che ora tocca il 38. «Se avessi una bacchetta magica, la userei proprio per questo», afferma, spiegando che quei cinquantenni che oggi non spendono, perché preoccupati per i propri figli, immobilizzano risorse che potrebbero essere investite in chiave crescita. E qui arriva la domanda del direttore del Corriere della Sera: invece di baloccarsi con Imu e Iva, non sarebbe meglio agire sulla tassazione che grava sul lavoro, riducendo il cuneo fiscale? Sì, risponde Letta, «è una priorità che ci indica anche la Commissione europea». Ma senza allargare la voragine del debito pubblico, che ogni anno “brucia” il 5% del Pil.
Le riforme. Un tema pure vastissimo, che Letta non dribbla. Partendo dal risultato elettorale del Movimento 5 Stelle: «Mai in Europa un partito al debutto ha ottenuto il 25%». Un dato in cui il premier, peraltro, vede i segnali non dell’antipolitica, bensì «di una disperata voglia di politica». Certo, diversa dall’attuale. E quindi: una sola Camera chiamata a dare la fiducia al governo e la seconda, espressione delle autonomie, con soli compiti di controllo, riduzione dei parlamentari («ne abbiamo il doppio degli Stati Uniti») e l’inizio dell’addio al finanziamento pubblico ai partiti, «su cui ora in Parlamento tutti dovranno assumersi le proprie responsabilità». Ma anche basta allo spettacolo delle leggi finanziarie costruite sulla base di emendamenti notturni, che poi confluiscono in maxiemendamenti del governo fino a diventare decreti legge: «Un percorso democratico discutibile». E nel mazzo Letta inserisce anche un’ulteriore riforma del Titolo V della Costituzione, «perché l’attuale quadro non funziona: ha portato solo caos e contenziosi tra Stato e Regioni».
Quirinale e governo. La drammatica settimana d’aprile conclusasi con la rielezione di Napolitano non dovrà più ripetersi. Ergo: il prossimo presidente della Repubblica andrà votato con altre regole. Quali? Butta lì de Bortoli: le piace il modello francese? «Non mi pronuncio, il mio compito è aiutare la nave ad andare in porto. Certo, io sono un francofilo per eccellenza, ho anche studiato là...». Infine, la strana maggioranza con il Pdl: «Questo è un governo eccezionale e straordinario, che non si ripeterà: serve a riformare il Paese e, terminata la sua missione, darà un campo da gioco praticabile, con una legge elettorale che funzioni». Lo ripete più volte: quasi fosse un esorcismo.



Letta, così perfetto così “trentino” Cronaca di una giornata da premier, P. Mantovan, "Trentino", 3 giugno 2013

Enrico Letta è perfetto. Non sbaglia una parola. Non è una star da palcoscenico ma conosce così bene le regole dello show e l’arte della diplomazia, da saper distillare un perfetto cocktail di ardimento, saggezza e cortesia. È così perfetto che quando parla del Trentino sembra sia nato qui: al mattino, al teatro Cuminetti, esordisce con un tributo a Bruno Kessler, nientemeno, e subito dopo il primo ministro Letta sostiene che Trento è la capitale dell’innovazione alla quale è lui a dover rivolgere un applauso (ottenendolo per sé). Ma la perfezione si manifesta senza soluzione di continuità perché Enrico Letta oltre che perfetto è un perfezionista, e non sbaglia alcun riferimento. Trentinissimamente Letta. Cita a più riprese il presidente Pacher, chiamandolo a testimone di scelte fatte per le regioni, ricorda più volte che il suo maestro è stato Nino Andreatta «un grande trentino». Tocca con delicatezza il tasto delle minoranze etniche, abbraccia il valore dell’autonomia e quando si getta sul trasporto aereo è preciso come google maps appena dice “parlo a una città che sta fra due aeroporti”. Insomma, così trentino nei riferimenti trentini, che sembra sia sempre qui. E poi Enrico Letta parla del suo ministro Maria Chiara Carrozza: «È una prof di robotica, ha ottimi rapporti con l’Università di Trento, invitatela a venire più spesso, vi aiuterà a migliorare, a rendere ancor più performante la vostra Università».
Il pisano e il fiorentino Ma Letta è perfetto anche nei tempi. Appena arriva guarda tutti e non guarda nessuno, s’avvia verso il Cuminetti con un sorriso contenuto ma naturale, impeccabile per non sgradire nessuno, non dà l’impressione di ripetere mai nulla, non fa pause, non perde un secondo, non sgrana mai gli occhi, non alza la voce eppure ne mantiene un gradevole e colorato timbro, mai piatto. Sarà che sa il francese come l’italiano, sarà che è un pisano, con quei quarti di “nobiltà” di storia repubblicana che lo rendono sempre fiero, certo è che rispetto a Matteo Renzi è davvero un altro mondo. E il riferimento a Renzi non è casuale. Non solo perché gliene chiede conto de Bortoli, ma perché l’ultimo grande show politico all’Auditorium aveva visto Matteo Renzi contagiare la folla con il suo format, lui sì, con i tempi da showman, con la capacità di scaldare le menti e le pance. E poi perché ora, con questo governo delle larghe intese, tutti gli osservatori stanno a contabilizzare ogni piccola mossa sull’asse del duello Letta-Renzi. Perché giurano che è il futuro che ci aspetta.
Enrico, Diego e Lorenzo Al mattino davanti al Cuminetti, il piccolo teatro del Santa Chiara, ad attendere il premier c’è il governatore Alberto Pacher e c’è il sindaco Alessandro Andreatta. Poi c’è l’assessore Alessandro Olivi, l’uomo che il Pd sceglierà per le primarie, che incrocia immediatamente lo sguardo di Diego Schelfi. Il presidente della Cooperazione arriva in bicicletta dopo aver attraversato le vie del Festival dispensando sorrisi e, non appena scende sul tubo a conversare, pacche sulle spalle a tanti amici. Sembra d’incanto che Diego Schelfi sia di buonumore e che tanti cittadini lo guardino con stima ed amicizia: dev’essere ciò che accade quando qualcuno imbocca la strada della responsabilità del comando o vi si sente investito. Perché Schelfi, pur mantenendo il suo stile popolar-cooperativo, è come se avesse un sacco di adrenalina in corpo. Soprattutto quando entra all’aperitivo che si tiene velocemente nel giardinetto del chiostro della Fondazione Bruno Kessler. Letta è il primo ad arrivare con la scorta (garbata e precisina). Poi c’è il presidente Massimo Egidi (più volte citato da Letta al Cuminetti), quindi ecco il governatore Alberto Pacher. E poi il professore Paolo Collini, uno dei principali cervelli del Festival. E poi ecco Lorenzo Dellai. L’ex governatore si muove ancora come se fosse il principe. E con Enrico Letta è il più intimo, non c’è alcun dubbio. Ed è così che quando arriva Diego Schelfi, il presidente della Cooperazione che ora l’Upt indica come candidato del centrosinistra alle provinciali, Lorenzo Dellai lo prende sotto braccio e lo porta direttamente dal premier. Poche parole, ma è già una benedizione. Perché tra chi onora simboli e forme quanto Letta e Dellai, quella complice riservatezza è già un viatico. Poi, dei bolzanini passa anche l’assessore Roberto Bizzo. Che trascorre l’intera giornata a seguire Letta, e poi, appena il premier parte, Bizzo va nella sala a fianco a salutare Cosimo Pacciani, relatore al Festival, nonché uno dei cervelli renziani della Leopolda.
L’Europa e Villa Madruzzo Poi via, si va, come si dice in buon toscano. Letta rimonta in macchina e sale a Villa Madruzzo dove è pronto un pranzo sobrio ma perfetto. Anche qui c’è il tocco trentino che Letta non vuol perdersi. Il padrone di casa, Battista Polonioli, serve qualche stuzzichino con spumante dell’Istituto Mach, e poi un tortel di patate (leggero, giurano i commensali, fin dove possibile per un tortel), e un risottino allo spumante, in compagnia ancora di Pacher, Boeri, Innocenzo Cipolletta, Collini, Reichlin. Il premier chiede qualche delucidazione a Boeri sull’evento all’Auditorium Santa Chiara e confida che al prossimo vertice europeo punterà sulla richiesta di mosure mirate per l’occupazione giovanile, in modo che non sia un compito dei singoli stati, ma si preveda una qualche deroga, vi sia una qualche forma di incentivo europeo. L’uscita dalla procedura d’infrazione, e quindi il lavoro di Monti, potrebbe aiutarlo. E così Boeri all’Auditorium gli chiede proprio questo, se più che l’Imu non sia il costo del lavoro la priorità, se non si debba puntare prima di tutto a ridurre la pressione fiscale. Un assist perfetto per il premier perfetto. Che arriva a cantare la lode dell’Europa. E poi Letta spiega a tutti la scaletta che lo attende: il vertice europeo, la partita economica interna da definire entro il 31 agosto e poi il semestre a guida italiana dell’Europa. Quei diciotto mesi che servono al governo (che se è così è più Letta che “Alfetta”).
Il governo VeDrò Sì, il suo intervento all’Auditorium si potrebbe riassumere come un fiducioso «Vedrò». Che Letta difende dall’assalto di una domanda dal pubblico sulla trasparenza delle fondazioni e che forse quest’anno - il think tank bipartisan dei quarantenni - potrebbe anche non celebrarsi. Né a Dro né altrove. Anche di questo ha parlato ieri Letta ai trentini Dellai, Pacher e Vittorio Fravezzi: ci sono le scadenze economiche per il governo e ci sono problemi di sicurezza con Letta premier dentro il bunker della centrale di Fies. Forse VeDrò non si farà. Anche perché VeDrò, la perfetta macchina bipartisan, è già al governo.




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È rimasto poche ore, ma sufficienti per rivedere tutti gli amici trentini e del Festival dell'Economia, una manifestazione che ha visto nascere e che l'ha visto protagonista più volte. Il presidente del consiglio, Enrico Letta, è arrivato a Trento verso le 11.30, per l'incontro al Teatro Cuminetti, dove è stato presentato il progetto di Trento Rise per nuove aziende innovative, ed è stato accolto da tre personaggi di primo piano del Pd trentino, lì in veste istituzionale. C'era il presidente della Provincia, Alberto Pacher, che Letta chiama «Ale», come fanno gli amici; il sindaco di Trento, Alessandro Andreatta, e l'assessore provinciale all'industria, Alessandro Olivi, che conosce Letta da meno tempo rispetto agli altri due, ma che comunque lo sostenne alle primarie per la segreteria nazionale del partito, quelle vinte da Veltroni, e che ora è in corsa per la successione a Pacher nella poltrona più alta della Provincia. Per tutti baci e abbracci, specie per Pacher, che nei giorni scorsi Letta aveva chiamato, aggiungendosi alla fila di sostenitori che hanno provato a convincerlo a continuare nel suo impegno politico per il Pd e la coalizione.
Il grande amico Lorenzo Dellai, questa volta presente in vesta di ex governatore oggi onorevole si è tenuto defilato, ma non ha perso l'occasione di prenderselo sottobraccio e confabulare con il presidente del Consiglio, non appena ne ha avuta l'occasione, anche se per pochi minuti. Del resto, ora, hanno più occasioni per incontrarsi di un tempo, visto che anche Dellai è a Roma. Va detto che anche Pacher più di una volta ha visto il premier, ottenendo, se non altro, l'indicazione di un interlocutore unico con cui trattare nell'alta burocrazia romana riguardo al delicato rapporto finanziaria fra Trento e Roma, cosa che ha una sua importanza visto che il problema della Provincia è sempre stato quello di dover molto spesso ricominciare a spiegare da zero le questioni aperte. Ieri Letta ha comunque confermato che la questione sarà affrontata a luglio quando verrà a Bolzano.
Dopo l'incontro al Cominetti, Letta ha preso un aperitivo nel cortile della Fondazione Kessler, con parte dei vertici della Fbk, tra cui il presidente Massimo Egidi, Filippo Andreatta, Rudi Bogni e Diego Schelfi, altro papabile alla successione di Dellai, che oggi ha stretto la mano a Letta. Non si è visto invece, avvicinare il premier, l'autonomista Ugo Rossi.
Dopo l'apertivo, il presidente Letta è stato invitato a pranzo al ristorante Villa Madruzzo a Cognola con gli organizzatori del Festival, dove ha assaggiato antipasti trentini e risotto allo spumante bevendo spumante Aquila Reale di Cesarini Sforza. Con lui c'erano: Tito Boeri, Innocenzo Cipolletta (presidente Università di Trento), Paolo Collini (preside di Economia), l'economista Luigi Zingales e sempre Alberto Pacher. All'uscita, verso le 14.30, prima di recarsi all'auditorium, Letta ha salutato alcuni trentini dicendo: «Io amo il Trentino, l'ho sempre amato e mi dispiace di non avere la cittadinanza trentina». E alla richiesta: «Tenga a bada Silvio» ha risposto: «Tranquilli». Dopo l'incontro pubblico in auditorium è partito per l'aeroporto di Verona.