Autonomia, indipendenza e il “disagio tedesco”

I prossimi mesi saranno determinanti soprattutto per capire che strada questa società vorrà prendere. Se quella dell’autonomia condivisa, responsabile, europea, magari anche “a tendenza integrale”, o quella di un’ipotetica indipendenza necessariamente conflittuale, ripiegata su se stessa, che critica (giustamente) gli stati-nazione ma in alternativa non propone niente di meglio che regioni-nazione.
F. Palermo, "Trentino", 22 maggio 2013

Tra i tanti paradossi di questa fase – in cui un’epoca dell’autonomia si sta chiudendo e un’altra, dai contorni ancora incerti, sta iniziando – vi è il fatto che la convivenza non è mai stata buona come oggi, ma nemmeno mai così seriamente in pericolo.
Negli ultimi anni si è registrata una rapidissima virata autonomistica e “integrazionista” in pressoché tutta la popolazione di lingua italiana. Sembrano passati secoli da quando alcuni dicevano (e molti pensavano) “siamo in Italia, si parla italiano”. Ormai non vi è italiano di questa terra che non si identifichi nell’autonomia e nel plurilinguismo quali valori aggiunti rispetto al resto del territorio nazionale.
Nel contempo, settori sempre più ampi del mondo di lingua tedesca mostrano crescente insofferenza verso l’idea stessa di autonomia. Autonomia che, per quanto possa essere ampia, significa sì autogoverno, ma all’interno di una cornice statuale, come ha ben ricordato Alberto Faustini nel suo editoriale di domenica. Non si tratta più solo dello zoccolo duro dei movimenti indipendentisti, che sono sempre esistiti e fanno parte della fisiologia di un sistema in evoluzione, ma anche di rilevanti settori dei salotti buoni.
Il disagio è insomma sempre meno italiano e sempre più tedesco. Un disagio che è il prodotto di una preoccupante concomitanza di problemi reali (la crisi, i tagli, l’incertezza del futuro), di vecchi inconfessabili rigurgiti identitari e della paura di trovarsi sul lato sbagliato del confine tra l’Europa vincente e quella perdente. Una sindrome da barca che affonda e che spinge a reagire in modo irrazionale, privilegiando la ricerca di improbabili scialuppe di salvataggio o perfino cercando di nuotare in solitaria piuttosto che contribuire a riparare le falle.
Ormai il Freistaat è stato sdoganato nel discorso politico e giornalistico, indipendentemente dalla sua praticabilità. Il che ci potrebbe benissimo stare in un contesto razionale, dove ci sia spazio per argomenti complessi, dove si possa ragionare su tutto senza dover vendere facili slogan. Ma diventa pericoloso se presentato come illusione semplicistica per la soluzione di problemi complessi.
La domanda di fondo che emerge dalla manifestazione indipendentista di Merano è soprattutto quale spazio residui (sempre che ve ne sia ancora) per la complessità nel processo politico. Se ne rimane a sufficienza, allora è possibile ragionare anche di scenari indipendentisti, senza nasconderne le difficoltà e gli ostacoli, così come è possibile argomentare a favore della Vollautonomie, discutere dei ruoli dei diversi gruppi in un sistema sempre più autonomo, valutare i margini di manovra politici e la fattibilità giuridica di ogni possibile proposta. E ci può stare anche la partecipazione della SVP a manifestazioni di quel tipo. Magari per spiegare che anche la Baviera è un Freistaat, ma non si sogna certo di staccarsi dalla Germania (né potrebbe giuridicamente farlo).
Se invece lo spazio del discorso politico si riduce a un’arena in cui vincono gli slogan che parlano alla pancia, e perdono gli argomenti che parlano al cervello, allora siamo di fronte a un grave pericolo di polarizzazione che non promette nulla di buono. Se la politica si esaurisce ormai in messaggi che devono stare nei 140 caratteri di un tweet, e se ogni cosa è letta in chiave elettorale, allora essa non è più il veicolo per la composizione razionale dei conflitti e per la modifica della società, ma solo un circo per urlatori. E in uno spazio siffatto, la partecipazione della SVP alla manifestazione è un autogol, perché evidenzia le contraddizioni di chi sembra voler tenere i piedi in due staffe. Dove tutto è solo bianco o nero, non c’è posto per le sfumature di grigio.
Purtroppo c’è sempre qualche elezione all’orizzonte, con campagne elettorali che rovinano quanto si è faticosamente costruito dopo le elezioni precedenti. La paura della SVP di perdere consensi alle ormai prossime provinciali è comprensibile, ma lo sdoganamento dell’indipendentismo è in gran parte una sua responsabilità, per avere negli ultimi anni giocato solo in difesa e contemporaneamente gridato all’autonomia in pericolo, invece di rivendicare le conquiste ottenute e magari ammettere qualche errore e provare a porvi rimedio.
I prossimi mesi saranno determinanti soprattutto per capire che strada questa società vorrà prendere. Se quella dell’autonomia condivisa, responsabile, europea, magari anche “a tendenza integrale”, o quella di un’ipotetica indipendenza necessariamente conflittuale, ripiegata su se stessa, che critica (giustamente) gli stati-nazione ma in alternativa non propone niente di meglio che regioni-nazione.
Gli italiani, pur con le loro infinite divisioni, sembrano aver chiaro l’orizzonte. La SVP, al contrario, è politicamente compatta ma meno decisa sulla strada da prendere. E l’irrazionalità pre-elettorale purtroppo non aiuta.