Una riflessione sulle cause della sconfitta del 24-25 febbraio, che voglia essere di una qualche utilità, deve svolgersi all'insegna del rispetto per le persone e della solidarietà di partito, ma anche della sincerità e della schiettezza.
Giorgio Tonini, "Tamtàm Democratico", maggio 2013
È con questo spirito che dirò che mi ha sorpreso la sorpresa che ha colto il gruppo dirigente del Partito democratico nella notte del 25 marzo, quando il sogno di un governo Bersani-Vendola si è infranto contro il muro dei numeri. La sorpresa, che si è tradotta in un "no comment" durato 24 interminabili ore, fino alla conferenza-stampa con la quale Bersani provava a riprendere comunque il sogno così bruscamente interrotto, è la prova che il nostro quadro di comando aveva creduto davvero alla propria stessa propaganda. E non aveva neppure contemplato il caso che le elezioni si potessero "non vincere".
Eppure, i sondaggi, che certo davano il centrosinistra avanti, non erano affatto tranquillizzanti. Dipingevano, è vero, la coalizione "Italia bene comune" come vincitrice, ma in quanto "migliore perdente": che non è precisamente una condizione nella quale dormire sonni tranquilli. Anche perché tutti conoscevano l'insidia rappresentata dalla legge elettorale del Senato: tanto più con un sistema politico ridiventato multipolare.
E infatti, alla Camera, il piano degli strateghi del Pd era riuscito: l'operazione "sorpasso in discesa" aveva portato alla coalizione di centrosinistra quello che il presidente Napolitano, nel suo discorso del giuramento, ha definito "l'abnorme premio di maggioranza" previsto dal Porcellum. Col 29,55 per cento dei voti, nemmeno 100 mila di scarto rispetto al centrodestra, fermatosi al 29,18, la coalizione guidata dal Pd si era aggiudicata 340 dei 617 seggi in palio (al netto del valdostano e dei 12 italiani all'estero): un regalo di quasi 150 deputati. Sia detto per inciso: una vera e propria aberrazione che, a parti rovesciate, ci avrebbe visti in piazza con le fiaccole, in una motivatamente angosciata e indignata "veglia per la democrazia". Ma comunque, missione compiuta.
Senonchè in Italia c'è il bicameralismo perfetto. E al Senato, la magrezza del risultato elettorale, senza la protesi del premio nazionale, ha mandato il sogno in frantumi. "Un fatto certo non imprevedibile" (Napolitano). Perché al Senato era matematicamente impossibile vincere con i rapporti di forza registrati dal voto. E infatti, la lotteria dei premi regionali ha assegnato al centrosinistra solo 113 seggi (contro i 116 al centrodestra), che sono diventati 123, grazie alla conquista (storica) di tutti e 6 i collegi uninominali del Trentino - Alto Adige e di 4 seggi su 6 tra gli italiani all'estero.
Ma 123 senatori, a Palazzo Madama, non fanno maggioranza. Neppure se ad essi si sommano i 19 "montiani", portando finalmente alla luce del sole quel "matrimonio morganatico", mai del tutto negato e mai veramente ammesso, che aveva caratterizzato la confusa campagna elettorale del centrosinistra. 123+19 fa infatti 142, ben 16 voti sotto la maggioranza minima (e al netto dei senatori a vita) di 158 su 315.
La "non vittoria" non era affatto imprevedibile e non c'era quindi nulla di cui sorprendersi. Del resto, alcuni (pochi) di noi, mal sopportati nel partito, era qualche anno che dicevano, senza malanimo e con sincera preoccupazione, che la strategia del Pd, non solo era contraddittoria con la natura del "partito nuovo" che insieme avevamo voluto far nascere, ma era anche assai rischiosa, sul piano elettorale: perché puntava tutte le sue carte sulla debolezza dell'avversario, anziché sulla nostra forza.
Era una strategia che pretendeva di essere astuta senza essere intelligente, perché si basava sul presupposto, verificatosi clamorosamente infondato, che si potesse vincere "di default", per abbandono del campo dell'avversario, anziché per la strada maestra della conquista delle menti e dei cuori della maggioranza degli elettori.
Un errore tragico, che ha condotto il centrosinistra a sprecare, in modo clamoroso e incomprensibile, proprio come è incomprensibile il comportamento delle balene che vanno a spiaggiarsi quando avrebbero l'oceano davanti a sé, l'occasione più favorevole dal 1994 ad oggi.
Dinanzi ad un centrodestra che perdeva metà dei voti conquistati nel 2008 (una disfatta, altro che rimonta di Berlusconi!), il Partito democratico, anziché proporsi, attraverso una coraggiosa innovazione politica e programmatica, di sfondare le linee avversarie e produrre quel riallineamento elettorale che era stato la missione impossibile prima dell'Ulivo e poi del primo Pd, si rinchiudeva nella cittadella fortificata delle aree geografiche, sociali e culturali del suo tradizionale insediamento: le regioni rosse, le aree urbane, il ceto medio impiegatizio, prevalentemente pubblico, più in generale l'elettorato storicamente "di sinistra", notoriamente splendido, ma irrimediabilmente minoritario.
La riabilitazione di miti e riti certo rispettabili, ma regressivi, del tipo "finalmente possiamo tornare a chiamarci compagni", l'abuso dilagante del rosso bandiera, fino all'abbandono della autodefinizione di "riformisti", in favore di quella (oltre tutto sfortunata) di "progressisti" (la famosa "alleanza tra progressisti e moderati", per non dire dell'espressione "fronte progressista"), ha fatto il resto, in termini di auto-ghettizzazione.
Risultato: non solo il Pd non riusciva ad intercettare nemmeno uno dei voti persi da Pdl e Lega, ma finiva per perdere a sua volta 3 milioni e mezzo dei 12 milioni di voti conquistati da Veltroni nelle terribili condizioni del 2008, con un Berlusconi che pareva inarrestabile, dopo il fallimento del governo dell'Unione.
Stando ai dati dell'Istituto Cattaneo di Bologna, il Pd "progressista" è riuscito a perdere non solo, come è evidente, milioni di voti a vantaggio dell'astensione, del Movimento Cinque Stelle o, in misura minore, di Scelta Civica, ma perfino 400 mila elettori in favore della sinistra alla sua sinistra. Perché è sempre così: quando si perde, perché ci si chiude in difesa, si perde da tutti i lati. Si diventa preda, anziché predatore.
Le cause, insieme remote e immediate, della nostra sconfitta, a me sembrano tre. Innanzi tutto, la mancanza di una proposta di governo per il Paese, che presentasse le caratteristiche che, come ebbe a dire Antonio Giolitti, deve avere un'alternativa potenzialmente vincente: credibilità, affidabilità, praticabilità.
E invece, per tutta la campagna elettorale, si è alluso ad un possibile accordo post-elettorale con Monti, peraltro mai ammesso pienamente da Bersani e invece drasticamente escluso da Vendola, che ha così finito per rappresentare il nostro unico alleato di governo. Ma alla credibilità, affidabilità e praticabilità di un governo Bersani-Vendola neppure noi, il Pd, sembravamo credere.
Senza una vera proposta di governo, siamo rimasti soli. Paradossalmente, dopo anni di dispute teologiche tra i sostenitori della "vocazione maggioritaria", cioè della conquista direttamente da parte del Pd di quote di elettorato centrale (tra i quali certamente mi annovero) e i sostenitori di un'alleanza con un partito di centro al quale demandare questo compito (linea che non condivido ma che rispetto), non siamo riusciti a praticare né l'una né l'altra strategia e ci siamo ritrovati da soli con un (piccolo) alleato alla nostra sinistra. Chiusi in difesa, quando tutti si aspettavano da noi una manovra all'attacco.
Ed ecco allora le altre due concause della sconfitta: insieme alla vaghezza della proposta di governo, la mancanza sia di una strategia di alleanze, sia di una strategia di conquista dell'elettorato "mobile", da tutti gli analisti stimato (e dai risultati elettorali dimostrato) di proporzioni e dimensioni del tutto inedite.
Il passaggio decisivo è stato, a mio modo di vedere, il governo Monti. È vero, dopo la crisi del governo Berlusconi, abbiamo saputo, grazie all'onestà intellettuale e politica di Bersani, mettere l'interesse del Paese davanti a tutto, anche davanti al calcolo che poteva spingerci ad andare subito al voto per approfittare della condizione di sbandamento dell'avversario.
Senonché, quella scelta è stata poi nei fatti rinnegata: non dalle nostre azioni, ma dalle nostre parole. Anziché basare su questo nostro grande atto di responsabilità, una linea politica che facesse della esperienza del governo Monti la punta di diamante per la conquista di elettori nuovi, tanto più necessari in presenza di scelte che sapevamo avrebbero avuto caratteri di impopolarità, ci siamo concentrati sull'obiettivo di difendere i confini del nostro consenso: col risultato che, anche grazie alla nostra propaganda sul carattere "di destra", o "neo-liberista" del governo dei tecnici, abbiamo perso comunque voti tradizionali, sul crinale della "protesta", senza però conquistarne di nuovi, ma anzi perdendone anche di vecchi, sul versante dell'elettorato, per così dire, "di governo".
Si sarebbe potuto fare diversamente? Per il poco che può valere, la mia esperienza mi dice di sì. La mia campagna elettorale si è svolta tutta in una piccola area del Paese, uno dei sei collegi del Trentino-Alto Adige (dove al Senato si vota ancora col "Mattarellum"): il collegio di Pergine Valsugana, che comprende quasi tutto il Trentino orientale. Un collegio che il centrosinistra non aveva mai vinto, dal 1994 ad oggi.
Un collegio privo di una vera area urbana e composto da valli montane dedite al turismo, all'agricoltura di montagna, alla piccola e media industria e all'artigianato: tutti mondi nei quali, pur in un contesto di autonomia speciale, la crisi morde in modo assai doloroso e il centrosinistra è da sempre minoritario. Ho considerato quella mia candidatura un servizio e una testimonianza, con possibilità pressoché nulle di successo. E invece ho battuto il mio avversario (il leghista Sergio Divina, che nel 2008 aveva vinto il collegio di Trento, altrimenti sempre vinto da noi...) 43,5 per cento a 28,5, col candidato del M5S che ha comunque preso il 20.
Credo che la spiegazione di questo mio/nostro successo derivi dal fatto che come candidato, come partito e come coalizione abbiamo adottato una strategia di campagna elettorale per molti aspetti diversa, per non dire opposta, a quella nazionale. Innanzitutto la proposta di governo: per noi era esplicitamente e chiaramente il governo Bersani-Monti, in continuità, sia pure evolutiva (della serie: proprio perché abbiamo fatto le cose giuste con Monti sul versante del rigore, ora potremo affrontare con decisione il problema della crescita e dell'occupazione...), col governo al quale, dicevo tutte le sere, "insieme al Pd ho votato la fiducia 55 volte e lo rivendico, perché pur tra limiti ed errori, so che abbiamo fatto il bene del Paese".
Proporsi chiaramente come coalizione di governo, senza peraltro mai polemizzare con le "proposte di protesta", a cominciare dal M5S, di cui riconoscevamo le ragioni, pur non condividendone gli esiti, non ci ha messo al riparo dai colpi dei grillini (che hanno comunque rastrellato il 20 per cento dei voti), ma ci ha reso competitivi nella conquista del voto "moderato", cioè costruttivo e di governo, alla ricerca di proposte e persone capaci di un discorso di verità, proprio mentre i nostri avversari berlusconian-leghisti sterzavano decisamente verso il populismo protestatario, nel vano tentativo di arginare l'onda grillina.
Questa proposta era resa credibile dall'unità della coalizione che si presentava insieme nei collegi uninominali: noi del Pd, insieme ai montiani di Lorenzo Dellai (col quale avevo collaudato un "numero" quotidiano, replicato in tutte le contrade del collegio, nel quale il "più montiano dei democratici" convergeva politicamente e programmaticamente col "più democratico dei montiani"), e agli autonomisti del PATT. Certo, una coalizione resa credibile da quindici anni di governo comune della Provincia autonoma. E tuttavia, questo valeva anche nel passato, ma non era mai stato sufficiente a vincere, alle politiche, nel collegio di Pergine Valsugana.
Infine, la campagna che abbiamo condotto insieme, come partito e come coalizione, è stata tutta mirata a conquistare gli elettori mediani, secondo i canoni più classici della "vocazione maggioritaria": dagli albergatori che avevano sempre votato Forza Italia, agli artigiani (e agli operai) in passato terreno di caccia della Lega. Ne ho tratto il convincimento che solo un partito che abbia l'ambizione di conquistare in proprio e direttamente queste fasce di elettorato, tragicamente così lontane dal voto per il centrosinistra, può anche stringere alleanze con formazioni politiche cosiddette "di centro", nazionali o territoriali che siano. Mentre non vale il contrario: con buona pace dei teorici dell'alleanza tra progressisti e moderati, se il Pd, invece di fare il Pd, ossia il grande partito nazionale e popolare, riformista e democratico, aperto e inclusivo, regredisce allo stadio infantile del progressismo, finisce come con Monti, che l'alleanza non si può fare e diventa anzi competizione polemica.
Si tratta, come è evidente, di un esperimento dal quale sarebbe improprio inferire una teoria generale. E tuttavia, la teoria generale con la quale siamo andati al voto è stata falsificata dal l'esito del voto. Mentre il mio modesto esperimento trentino è comunque un fatto: capovolgendo la teoria generale, abbiamo vinto anche dove non eravamo mai riusciti prima.