Musei del futuro, sostenibili e coraggiosi

Il dibattito sulla politica culturale lanciato da Fancesco Pisanu si fa sempre più approfondito: far "quadrare economia e cultura" è un'esigenza sempre più necessaria, visto il difficile momento che attraversa la prima.
Luca Zeni, "Trentino", 18 maggio 2013

Certamente, se l’alternativa è tra “dare il pane a un affamato” e “organizzare una mostra di pittura”, economia e cultura sembrano separate, e si comprende intuitivamente che si elimina il costo della mostra per garantire il bene primario del pane. Da questo punto di vista, quindi, la cultura rimane un costo da tagliare nei momenti di austerità.
Ma se pensiamo che anche la cultura sviluppa l’economia, e se concepiamo la stessa cultura anche come attività economica, non per svilirla o mercificarla, ma per renderla un’autentica leva di sviluppo, allora le due cose non sono più separate. Questo deve valere ancor più per realtà importanti come il Muse. Certo, parlare di cultura in senso economico di solito non piace ai politici, perché è più facile usare la retorica dell'occupazione legata alla continuità del nostro sistema produttivo esistente. Ma il principio base di ogni attività economica consiste nel progettare e pianificare una sostenibilità di attività, con marginalità, diretta e indiretta, in grado di svilupparsi e di affermarsi nel nuovo contesto economico in cui ci troviamo oggi. Solo così potremo avere un ambiente più ricco, oltre che con attività in grado di sostenersi da sole. I due pilastri di un’attività di questo tipo sono, da un lato, la scelta di strategie di lungo periodo, dall’altro la base di solide competenze. Così non basta costruire un museo e attendersi dei flussi naturali; anche grandi città come Milano e Roma si trovano a fare i conti con problemi di questo tipo. Ecco perché una guida efficiente per dirigere un museo non può essere soltanto un uomo di cultura, ma deve anche essere un manager di cultura. Ancor più di ogni altro manager, deve possedere una chiara visione di futuro, proprio perché un museo è un processo, non la costruzione di una cattedrale (una creatura titanica, dice Pisanu). Non serve a celebrare la potenza di un Paese ma al contrario a mettere il moto il suo dinamismo. Per questo motivo non basta ospitare cultura, ma occorre pensare alla sua “distribuzione”, occorre progettare e gestire flussi di canalizzazione. Possiamo trarre un esempio dal turismo. L’ambizione di diventare specialisti nell’industria congressuale, nel MICE (meeting incentive congress event), è stata spesso confusa con la realizzazione di un grande centro congressuale, con la “messa a disposizione di grandi spazi”, senza alcuna progettazione del turismo relativo. Un abbaglio in tutta l’industria del turismo italiano, come sperare di radunare tanti amici abitando in una grande casa. Anche in quel campo in realtà il punto più rilevante è la competenza specializzata (altrimenti non sposti la massa critica necessaria per questo tipo di attività). Così tra una società specializzata con un piccolo auditorium ed un importante CDA con un moderno centro congressuale multimediale non avrei nessun dubbio su quale scegliere: il primo crea profitto e nuove risorse da investire, il secondo è destinato a chiudere perché non riuscirà a pagare i costi manutentivi. L’esempio va bene anche per la cultura. Pensiamo al brand Guggenheim, che non è nato da solo ma si è sviluppato su strategie comunicative e di marketing di elevata specializzazione, e già il “guscio”, la stessa struttura edificata era pensata come un’opera d’arte che creasse aspettativa. Oggi è ormai una potente struttura organizzativa e manageriale, che da New York è stata capace di migrare in tutto il mondo e, per esempio, ha trasformato Bilbao, la città delle miniere e dei cantieri navali, in un museo di arte contemporanea a cielo aperto, generando 10.000 posti di lavoro e portando nei primi tre anni di apertura un flusso di 3 milioni di persone. Pensiamo alla trasformazione della Ruhr, che era nera di fuliggine e di pessima qualità ambientale, in uno dei principali “parchi” naturali, commerciali e culturali della Germania. Pensiamo, per riportare un esempio italiano, alla creazione, a Trieste dell’ICPT (International Centre for Theoretical Phisics), che ha fatto di Trieste la città con la più alta densità di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico d’Italia. Per realizzare innovazione, pertanto, occorre una sintesi e una nuova alleanza tra politica e management. Se si finisce in mano ai tecnocrati, come molti hanno lamentato di questi tempi, è perché si disprezzano le competenze e non si sanno assorbire, in una politica virtuosa, i ”tecnici di programma”, come ormai si possono definire. Questo significa due cose. In primo luogo i politici non devono occupare posti, devono lanciare iniziative; un esempio concreto può essere la proposta di creare una vera e propria rete dei musei trentini, capace di unire in un unico circuito Muse, Mart, Castello del Buonconsiglio, Castel Thun, ma anche le decine di piccoli musei che da soli rischiano di non essere valorizzati. Abbiamo citato il Guggenheim: in quel caso si sono uniti gusti diversi, moderno e classico, si sono associati stili e correnti diverse, messi insieme l'innovazione con il nuovo. Perché noi non possiamo farlo con riferimento alla nostra rete museale complessiva, così eterogenea ma con così forti potenzialità? La proposta, avanzata da Margherita Cogo, di avere un unico CDA spaventa alcuni campanilismi, ma va in questa direzione. Non vorrei usare espressioni forti, ma se la politica non assume coraggio, diventa solo un’attività pavida. Allo stesso tempo, le competenze richieste non riguardano solo il sapere culturale e quello manageriale, ma una nuova vera e propria vocazione progettuale, ovvero credere veramente che la cultura possa diventare un fattore di sviluppo. In definitiva, quindi, il problema non è dove si trovano soldi, ma come si progetta la sostenibilità. La cultura ha bisogno d’investimenti, non di enumerazione di costi. La domanda di Pisanu, su come far quadrare cultura e economia, allora apre e rimanda ad ulteriori domande. Non solo quale sia l’investimento adeguato, ma: che economia avrà il nostro territorio tra dieci anni? Che lavoro faranno i nostri figli? Quali esigenze sociali, ambientali, culturali saranno prioritarie? Il benessere reale, fisico e sociale, su quali pilastri oggettivi poggerà? Su questo apriamo il dibattito vero, dalle primarie interne ai partiti al confronto leale con tutte le forze politiche.