La crisi del sistema politico italiano e della cosiddetta II Repubblica merita, da parte di tutte le forze democratiche, uno sforzo di riflessione: lo stato delle “cose” ha ragioni storiche profonde e complesse, che vanno oltre una lettura superficiale degli accadimenti degli ultimi mesi.
Lorenzo Passerini, 12 aprile 2013
L’Italia, durante i decenni della I Repubblica, è sempre stata una democrazia debole, con un sistema bloccato. Alberto Ronchey impiegò la formula fattore K per analizzare le ragioni della mancata alternanza di governo nel nostro Paese: nel momento in cui un potente partito comunista prevaleva su ogni altra opposizione, con quel nome legato alla tragica esperienza sovietica, senza un'ideologia e una politica estera compatibili con le condizioni storiche dell'Europa a ovest del muro di Berlino, non potevano crearsi le condizioni per una democrazia dell’alternanza.
Con il crollo del blocco sovietico, quando questo sarebbe stato possibile, anziché riformare politicamente le istituzioni e il sistema dei partiti, venne aperta una stagione giustizialista e di “delegittimazione della politica”, in cui molte forze politiche e alcuni settori del mondo economico-finanziario ebbero importanti responsabilità. La svolta dei primi anni '90, con l'acqua sporca del finanziamento illecito ai partiti e dei fenomeni di corruzione, ha buttato via anche il bambino, delegittimando alla radice il sistema politico esistente e quindi anche il ruolo positivo che i partiti di massa – gli artefici della Costituzione - avevano avuto nell'Italia repubblicana.
Si perse l'occasione per cambiare il sistema politico partendo dall'art. 49 della nostra Costituzione, che recita “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Come ebbe a dire Bronislaw Geremek, intellettuale polacco ed esponente di spicco di Solidarnosc, senza i partiti non c’è democrazia e proprio per questo vedeva con preoccupazione la tendenza delle nuove generazioni ad allontanarsi dai partiti e dalla cultura politica. E anche la storia del nostro Paese conferma questa riflessione: infatti nel corso del Novecento i partiti sono stati strumenti di lotta politica, ma anche luoghi di socializzazione e di formazione culturale e politica e quindi di selezione della classe dirigente a tutti i livelli, dai Comuni alle Provincie, dalle Regioni allo Stato, dai Sindacati alle Cooperative. I “grandi padri” come – per citarne solo alcuni – Alcide Degasperi e Aldo Moro, Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano, Pietro Nenni e Sandro Pertini non possono essere pensati senza i partiti in cui militavano. Così come la Resistenza, la Repubblica, la Costituzione, le conquiste democratiche, sociali ed economiche del secolo scorso non possono essere pensate senza il lavoro, l'impegno e il sacrificio di milioni di militanti e le capacità organizzative e propositive dei grandi partiti di massa; senza di loro, senza il Partito Comunista, il Partito Socialista, la Democrazia Cristiana è difficile pensare ed immaginare l'Italia del Novecento.
I partiti sono fondamentali per costruire percorsi dove le persone possono sperimentarsi, sbagliare e imparare dagli errori, dove i giovani possono misurarsi con le problematiche quotidiane attraverso un impegno costante a servizio della comunità. Quella che stiamo vivendo è una fase storica particolarmente difficile e complicata che necessita di energie in grado di interpretare il cambiamento. Il futuro non si improvvisa e il rinnovamento deve essere costante, ma graduale. C'è bisogno delle energie e delle competenze di tutti, ogni cittadino deve sentirsi responsabile dei destini della Comunità.
Negli ultimi vent'anni si è invece favorita la personificazione, ma si è dimenticato che il leaderismo favorisce il populismo contro lo spirito critico, la demagogia contro il ragionamento politico. Oggi prevale la ricerca esasperata di visibilità personale troppo spesso non accompagnata da impegno vero e dalla fatica dell’approfondimento che le responsabilità necessitano. I soggetti collettivi vengono ridotti ai leader stessi abbassando il livello generale della politica che quindi diventa sempre più incapace di decidere e di affrontare in modo efficace i problemi.
Per tutte queste ragioni occorre recuperare il ruolo delle forze politiche partendo da una riforma che deve puntare a costruire una democrazia dell'alternanza, con partiti che selezionano in modo condiviso i propri dirigenti e candidati, che determinano in modo aperto le proprie scelte politiche, che gestiscono in modo trasparente e sobrio le proprie risorse, anche pubbliche. Partiti che sono capaci di offrire personale qualificato, dal Governo nazionale alle Amministrazioni locali, che dialogano positivamente con la Comunità, che sanno rendere protagonisti i cittadini della vita delle Istituzioni.