Questa settimana l'Aula del Senato ha lavorato per due giorni, anzi un giorno e mezzo. Il pomeriggio di martedì è stato dedicato ad una discussione sull'informativa del governo (per bocca del sottosegretario all'Economia Polillo) sulle modifiche introdotte in materia di TARES (il famigerato tributo comunale sui rifiuti e sui servizi).
Giorgio Tonini, 12 aprile 2013
L'intera giornata di mercoledì è invece servita a discutere e approvare (all'unanimità) il decreto del governo che contiene misure urgenti in materia di sanità: in pratica il rinvio della chiusura dei manicomi giudiziari, a causa del ritardo nell'allestimento delle strutture assistenziali alternative; e una complessa e delicata normativa sull'utilizzo terapeutico delle cellule staminali, cercando di conciliare il sacrosanto diritto alla speranza, dei malati e delle loro famiglie, con il dovere dello Stato di regolare l'accesso a terapie sperimentali, sulla base di rigorosi protocolli adottati dalla comunità scientifica nazionale e internazionale.
Insomma, si è trattato di una settimana parlamentare ridotta all'osso, come è forse inevitabile in questa difficile fase di avvio della legislatura, ancora segnata dalla mancanza di un governo e ormai occupata appieno dalla faticosa ricerca di convergenze sulla elezione del nuovo presidente della Repubblica.
Il disagio, assai diffuso, in un paese che soffre per una crisi economica e sociale senza precedenti, è stato cavalcato con indubbia efficacia mediatica, ma anche con una certa spregiudicatezza politica, dai parlamentari del Movimento cinque stelle (M5S), che martedì sera hanno "occupato" l'aula, sia a Montecitorio che a Palazzo Madama, per protestare contro il rinvio della costituzione delle commissioni parlamentari, indispensabili per il funzionamento delle camere.
Ho scritto "occupazione" tra virgolette, perché si è trattato in effetti di un prolungamento della presenza in aula, dei deputati e senatori del M5S, oltre il termine serale di chiusura dei lavori. Insomma un'occupazione "light", come tale di fatto tollerata dai due presidenti, Boldrini e Grasso. Altra cosa, ben altrimenti censurabile, anzi da reprimere col massimo di durezza, sarebbe stata un'occupazione per impedire all'Aula di tenere una seduta. Ma non era questo, come è evidente, l'intento del M5S.
Le altre forze politiche (tutte, ah quanto piace ai grillini questa lotta solitaria contro la "casta partitocratica"!) hanno confermato, nelle due conferenze dei capigruppo, la decisione, in continuità con una prassi mai smentita, di attendere, per la costituzione delle commissioni, la formazione del nuovo governo. Il Pd ha anzi rimbalzato sul M5S l'accusa di ostruzionismo, perché col suo rifiuto di qualunque alleanza sta di fatto impedendo la formazione del governo e quindi determinando la vera ragione del blocco politico-istituzionale.
Chi ha ragione, almeno sul piano istituzionale (su quello politico, ognuno è giusto abbia le sue idee)? Dalla parte dei grillini c'è il dato di fatto che né la costituzione né i regolamenti parlamentari vietano esplicitamente la costituzione delle commissioni prima della formazione del governo. Ma, obiettano gli altri, neppure obbligano a farlo. E la prassi ha una sua logica. Perché le commissioni per lavorare devono eleggere i loro uffici di presidenza, che vengono composti (e non potrebbe essere altrimenti) in base al criterio maggioranza-opposizione. Ma come si fa a seguire questo criterio finché non si conosce la composizione della maggioranza di governo?
In realtà, alla base della posizione del M5S, sembra esserci una concezione assemblearistica della democrazia, secondo la quale non serve un governo, perché è possibile e anzi preferibile che sia il parlamento stesso ad esercitare il potere esecutivo: una visione che ha poco in comune con la democrazia liberale, che si basa proprio sulla distinzione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario e che, nella sua versione parlamentare (cioè non presidenziale) assegna proprio al governo, legittimato dalla fiducia del parlamento, la funzione di "comitato direttivo della maggioranza parlamentare" come diceva Mortati, in pratica sede di indirizzo politico del lavoro del parlamento.
Dunque, pur con tutta la buona volontà, non ci sono scorciatoie per uscire dall'attuale situazione di blocco politico-istituzionale. Falliti i tentativi di Napolitano di dar vita subito ad un governo, a causa dei veti incrociati tra i partiti (M5S compreso), non è rimasta altra via che invertire il calendario, procedendo prima all'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, per ritentare poi, sotto la regia di un presidente nel pieno delle sue funzioni, la costituzione di un governo.
È quindi ovvio che il centro della scena politica sia stato occupato stabilmente, nel corso di questa settimana, e ancor più lo sarà nella prossima, dalla discussione sul nuovo "inquilino (o inquilina) del Quirinale". Ma cosa dobbiamo sperare, o cosa dobbiamo attenderci, che emerga dal fumo di questo difficile e faticoso confronto?
Se dipendesse tutto da me, se potessi decidere da solo, rieleggerei Napolitano. Come è noto, si tratterebbe di una forzatura, contro la sua volontà e contro il solidissimo argomento, sempre opposto dall'attuale presidente a chiunque ventilava questa ipotesi, per il quale "a 88 anni non si possono fare gli straordinari". Napolitano ha ragione, ma dal mio punto di vista non si tratterebbe di rieleggerlo per sette anni, ma per il tempo (un anno, due al massimo) strettamente necessario a varare la riforma costituzionale che serve al paese (e di cui ho ampiamente parlato in campagna elettorale): elezione diretta del presidente della Repubblica sul modello francese; riduzione dei deputati a 500, eletti come in Francia con il doppio turno di collegio; abolizione dell'attuale Senato, in favore di una camera delle regioni sul modello del Bundesrat tedesco.
Nel giro di pochi mesi, l'Italia avrebbe finalmente un sistema politico più forte, perché stabile, capace di garantire appieno la governabilità, ma anche più leggero, con la metà degli attuali parlamentari e un federalismo finalmente messo in grado di funzionare. Nel frattempo, Napolitano potrebbe promuovere un governo di scopo, sorretto dalla più ampia base parlamentare possibile e concentrato sulla trattativa con l'Europa per una manovra "anti-ciclica", cioè di contrasto all'attuale recessione, attraverso un programma di consistenti sgravi fiscali alle imprese e al lavoro e di altrettanto consistenti investimenti pubblici, finanziati con un taglio coraggioso alle spese correnti. Tra uno o due anni si tornerebbe a votare: per il presidente e per i deputati. E avremmo un'altra politica...
Ho come l'impressione, tuttavia, che non sarò io a decidere, tanto meno da solo... E quindi quel che ho detto fin qui ha assai poche possibilità di realizzarsi. Se allora devo passare a dire non più ciò che considero desiderabile, ma quel che considero possibile, vedo davanti a noi due scenari alternativi.
Il primo, quello sul quale sembra si stia lavorando con impegno, sia da parte di Bersani, che da parte di Berlusconi (e indirettamente da parte di Grillo), è l'elezione al primo scrutinio, quindi con una maggioranza dei due terzi, come fu per Cossiga e poi per Ciampi, di un presidente di centrosinistra "votabile" da parte del centrodestra. Il nome obiettivamente più forte, o meglio più titolato (per standing internazionale, competenza giuridica ed economica, esperienza politico-parlamentare, autorevolezza), in questo scenario, è quello di Giuliano Amato. Una personalità, lo dico chiaramente, che voterei molto volentieri, serenamente convinto di fare l'interesse del paese.
Il punto debole di questo scenario è la richiesta, da parte di Berlusconi, di includere nell'accordo anche il governo, che lui vorrebbe di grande coalizione, presieduto da Bersani e con ministri sia del Pd che del Pdl. Bersani non è d'accordo e pensa piuttosto ad un governo "monocolore Pd", sia pure con il sostegno (o la "non sfiducia") del Pdl. Si sta trattando: un compromesso è difficile, ma non impossibile. Sarebbe comunque una soluzione a tempo, nella quale l'aspetto decisivo, a mio modo di vedere, sarebbe il contenuto programmatico dell'accordo, sia sul terreno delle riforme costituzionali, sia su quello delle misure socio-economiche. Solo un programma ambizioso darebbe al compromesso le sembianze di una mediazione di alto profilo.
Il secondo scenario è invece quello della rottura tra Bersani e Berlusconi e l'elezione, non prima del quarto scrutinio, quando diventa possibile passare con la sola maggioranza assoluta, di un presidente scelto dal centrosinistra insieme al M5S. In questo scenario, il nome più forte è quello di Romano Prodi (l'unico competitivo con Amato sul piano dell'autorevolezza in Italia e all'estero), purché i grillini accettino di non considerare anche lui un esponente della casta.
Il punto debole di questo secondo scenario è la pressoché certa impossibilità di produrre una soluzione al problema del governo: non solo per la indisponibilità del M5S, ma anche per la sua incompatibilità con l'esigenza di un negoziato europeo come quello prima auspicato. È assai probabile quindi che non resterebbe, al nuovo Capo dello Stato, che sciogliere le camere e riportare gli italiani al voto. Senza riforme costituzionali e senza misure anti-cicliche a favore dell'economia. A parte la stima per Prodi, penso che mi acconcerei a votare per un presidente da eleggere in questo scenario, solo per disciplina.
La prossima settimana sapremo come sarà andata. E, in non piccola parte, come andranno i prossimi sette anni...