Chiunque abbia fatto la campagna elettorale volantinando fuori dai supermercati – là dove hai modo di incontrare lo spaccato del Paese reale e non una sua fetta che ti scegli a piacimento perché a fare la spesa ci vanno tutti – si è reso facilmente conto che era arrivato il dies irae, il giorno dell’ira e della punizione divina. «Fate campagna elettorale con i soldi nostri» dicevano i pensionati. «I soldi per pagarvi i volantini lo Stato ve li dà, a noi non dà i soldi per comprarci il pane. È giustizia questa? È uguaglianza di trattamento?»
Michele Nicoletti, "L'Unità", 10 marzo 2013
Agli imprenditori piaceva l’idea di sbloccare i crediti che le imprese vantano nei confronti dello Stato, ma la musica era la stessa: «Non ci importa quanto siete pagati, ma perché i vostri crediti non si bloccano mai? Perché ogni mese arrivano puntualmente i pagamenti delle indennità, dei costi per i gruppi consiliari, dei rimborsi elettorali e i pagamenti alle imprese non arrivano mai? Bloccate i finanziamenti ai partiti fino a che non avrete sbloccato i crediti alle imprese, così sarete più credibili e convinti quando vi batterete per sbloccare tutti i crediti, i vostri e i nostri! » Di nuovo il problema dell’uguaglianza di trattamento. Insomma non era difficile respirare l’atmosfera che prepara i grandi rivolgimenti, le grandi rivoluzioni.
E venivano alla mente le pagine straordinarie che Tocqueville, nel suo L’ancien regime e la rivoluzione, dedica al crollo dell’aristocrazia francese allo scoppio della Rivoluzione. La nobiltà francese era morta anzitutto nel cuore della gente. Per secoli il sogno di ogni persona era stato quello di nascere nobile o di poter conquistare un qualche grado di nobiltà con la spada, il commercio o l’intrigo: la nobiltà era l’oggetto del desiderio. Ora, quasi all’improvviso, era diventata l’oggetto del disprezzo e di un odio profondo, perché aveva perduto la sua funzione sociale. Detentrice di privilegi ingiustificati, svelava la sua natura di classe parassitaria: non solo inutile, ma dannosa. E come non abbiamo fatto ad accorgercene, noi, cresciuti sui banchi di scuola imparando i versi del Parini sul “Giovin Signore”: colui “che da tutti servito a nullo serve”? Gli aristocratici come “sanguisughe” del popolo. Per questo da eliminare.
Non c’è solo sofferenza sociale e tanta rabbia dietro al voto, c’è anche risentimento. Bisogna riandare alle pagine di Nietzsche sul risentimento per capire il suo nesso profondo con il populismo novecentesco. Odio verso tutto ciò che sta in alto. Non potendo innalzare me stesso, almeno si abbassi l’altro. E dunque identificazione con chi propone di abbattere, azzerare, mandare tutti a casa. Non è vero che l’umiliazione di chi sta in alto non porta immediato giovamento alla condizione del risentito. Non si capirebbe il ruolo della satira. E non c’è forse uno strabordare della satira nella politica italiana? Nel dileggio di chi sta in alto, nel vederlo cadere, inciampare, balbettare, nella dissacrazione esasperata, nella sua spoliazione vedo compiersi un’anticipazione del giudizio finale, quando arriverà la grande Eguagliatrice. Chi ripete che i tagli ai costi della politica non muterebbero di molto le condizioni del Paese, sembra non vedere questa dinamica: la condizione di privilegio è insopportabile alla vista. Tanto più quando quella “aristocrazia” non è il frutto di una conquista militare o di una potenza economica, ma quando è il frutto della rappresentanza popolare. Insopportabile non è il miliardario, ma il popolano che in forza del mandato popolare si eleva e si sottrae al destino di miseria del suo padrone: il cittadino.
«Non chiamatemi onorevole, ma cittadino» dicono i neoeletti del Movimento 5 Stelle in Parlamento. Basterebbe questo per respirare aria da Rivoluzione Francese. Come non sentire in questa parola le antiche aspirazioni dei levellers all’uguagliamento? Un po’ di Rousseau, un po’ di anarcoprimitivismo. L’onore – ci insegna Montesquieu – è il tratto distintivo delle monarchie e della nobiltà ad esse legata. Nelle repubbliche l’unico onore che può essere tributato è quello a chi ha servito la patria, non certo a chi si è servito di essa. E quanto molti “onorevoli” precedenti hanno disonorato la funzione di rappresentanti del popolo?
Davanti ai supermercati non è facile spiegare la funzione dei partiti, snodo essenziale delle democrazie rappresentative. «Se ritenete che siano così importanti – dicono – perché non ve li pagate?» «Se non credete voi, fino in fondo, in ciò che fate, se non ci credete al punto di sacrificare qualcosa di vostro per questo ideale, perché dovremmo crederci noi?» E noi a parlare dei rischi del populismo e dell’involuzione autoritaria di una democrazia plebiscitaria. E allora l’inevitabile ironia: «Perché Sturzo, Gobetti, Turati e Gramsci ricevevano soldi dallo Stato?» In tanti discorsi di casa nostra sui partiti permane ancora l’idea del partito come Grande Mediatore secondo quella catena di successione teologico-politica che dal Cristo dei primi secoli va alla Chiesa medievale e poi allo Stato moderno e infine al Partito contemporaneo, secolarizzazioni successive del Corpo Mistico, retto da un funzionariato che è l’esatta replica del clero organizzato. Ma davanti al supermercato una signora si ferma davanti al nostro gazebo, posa le borse a terra e sconsolata ci dice: «Pure il Papa si è dimesso ed è tornato umano. Ed era stata eletto dallo Spirito Santo. E voi che siete stati eletti da noi, quando tornate umani?».
E dunque questo è il tempo di tornare umani, di spogliarsi della natura divina e di assumere fino in fondo la conditio humana. Al populismo non si reagisce riproponendo il paternalismo delle oligarchie o quello delle elites tecnocratiche, ma riproponendo con coraggio la via di un nuovo repubblicanesimo che metta al centro la sovranità del popolo e la centralità del Parlamento. Non sarà certo ai democratici che farà paura riprendere lo spirito della Dichiarazione dei diritti della Virginia: «Tutto il potere è nel popolo, e in conseguenza da lui è derivato; i magistrati sono i suoi fiduciari e servitori, e in ogni tempo responsabili verso di esso». Con questo sentimento nel 1789 i rappresentanti del Terzo Stato nella Sala della Pallacorda giurarono che non si sarebbero sciolti fino a che non avessero dato una Costituzione alla Francia.