L'esperto e ora senatore Francesco Palermo boccia l'idea "partitica" rilanciata dalla Lega: "Quella della macroregione è un'idea tutta politica che nasce dalla temporanea compresenza al vertice di tre regioni di esponenti dello stesso partito. In realtà, dimostra quanto poco, in Italia, sia stata discussa la funzione delle Regioni, pesantemente mortificata dai tagli degli ultimi anni."
Z. Sovilla, "Trentino", 2 marzo 2013
La Lega celebra il successo in Lombardia, sulle macerie del suo crollo alle politiche, riesumando l'idea della macroregione del Nord. Il progetto, rilanciato da Roberto Maroni insieme all'obiettivo «il 75% delle tasse al territorio», nasce dall'attuale congiuntura politica che con il Carroccio al Pirellone vede formarsi una saldatura di governatori leghisti dal Piemonte al Veneto (dove peraltro il partito è indebolito e spaccato).
Il primo passo annunciato è la creazione di un coordinamento macroregionale che faccia fronte comune nei riguardi del governo centrale, ma il «grande sogno» è un'entità federale «sul modello bavarese o catalano».
Soltanto propaganda elettorale, secondo Francesco Palermo, esperto di federalismo e regionalismo, ricercatore all'Eurac di Bolzano, neoletto al Senato per il centrosinistra.
«Quella della macroregione è un'idea tutta politica che nasce dalla temporanea compresenza al vertice di tre regioni di esponenti dello stesso partito. In realtà, dimostra quanto poco, in Italia, sia stata discussa la funzione delle Regioni, pesantemente mortificata dai tagli degli ultimi anni. Per forze come la Lega questi enti sono viste soprattutto come catalizzatore di finanziamenti per i territori; dal potere centrale, invece, come un centro di costo. Ciò premesso, è evidente che parlare di una grande entità istituzionale lascia il tempo che trova, se si tiene conto di quanto sono diversificate le varie zone anche all'interno delle stesse regioni: non serve andare lontano per rendersene conto... Avrebbe senso, piuttosto, una ragionamento complessivo sul rilancio dell'architettura regionale in un'ottica nazionale, non solo il Nord».
Per ora si parla più che altro della cancellazione delle Province ordinarie.
«Può essere un passaggio utile, si tratta di enti con scarso potere e in genere poco sentiti dai cittadini. Certo, andrebbero poi immaginate nuove forme intermedie di coordinamento tra i comuni e le Regioni. In Trentino si tenta con le Comunità di valle, una riforma che non ha avuto molta fortuna ma che indica la necessità di una riflessione su questo tema. Un'idea potrebbe essere una Camera dei comuni, nell'ambito di un impianto rinnovato nel quale si introducano strumenti consultivi per dare la parola ai cittadini, dai referendum veri e propri alla raccolta di pareri online».
Le autonomie speciali, in questo quadro, supereranno l'attuale sindrome da stato di assedio?
«Lo faranno se sapranno giocare in attacco, forti del loro ancoraggio costituzionale, abbandonando l'attuale atteggiamento difensivo alimentato dall'idea che la loro giustificazione forte sia quella storica. L'altro giorno ero a un dibattito a Trento e sentivo ripetere spiegazioni "autonomistiche" legate alle varie minoranze linguistiche presenti in provincia o all'impego del libro fondiario di origine asburgica. Ecco, queste sono spiegazioni ridicole che offrono soltanto argomenti a chi ci critica dall'esterno. Minoranze, per esempio, esistono in tutte le regioni. Dobbiamo piuttosto metterci alla guida di una trasformazione regionalista che dia più poteri ai territori, ma in misura diversificata secondo le capacità e i bisogni di ognuno. In parte le autonomie speciali hanno mostrato di poter fare di più spendendo meno, poi però si sono un po' sedute sugli allori: adesso devono autoriformarsi e diventare più efficienti come punti di riferimento».
Ma il resto d'Italia accetterà un futuro istituzionale che perpetui la distanza fra speciali e autonome?
«I territori hanno esigenze e profili diversi: questa è la natura intrinseca di un'architettura regionale eterogenea, specchio della realtà. Non ha più senso l'idea di uno Stato che distribuisce il potere decentralo in porzioni equivalenti».
La Lega ha utilizzato in campagna elettorale la suggestione del 75% di tasse trattenute localmente.
«Non funzionerebbe perché farebbe saltare gli equilibri della solidarietà nazionale fra territori forti e deboli. Le nostre autonomie speciali sono state sostanzialmente sottratte a questo principio, ma può funzionare solo finché si tratta di territori demograficamente ridottti: non si potrebbe estendere alle grandi regioni nemmeno a fronte di una pesante cura dimagrante dello Stato. Ciò non vuol dire che non sia urgente ridiscutere la distribuzione delle risorse fra il centro e le Regioni, alle quali servono maggiori disponibilità. In questo contesto credo che anche Trento e Bolzano dovrebbero arrivare a fissare con Roma una quota certa, per superare la conflittualità che da tempo caratterizza questo capitolo dei rapporti col governo».