DESTRA E SINISTRA - Una coppia che resiste

Di fronte a chi oggi si chiede se la distinzione tra “destra” e “sinistra” sia ancora utile nel panorama politico attuale, viene alla mente la battuta del filosofo francese Alain: «Quando qualcuno mi domanda se abbia ancora un senso la divisione tra partiti di destra e di sinistra, tra uomini di destra e di sinistra, la prima cosa che mi viene in mente è che la persona che mi fa questa domanda non è certamente di sinistra» (Alain, Propos, in «Droite et gauche», Décembre 1930).
Michele Nicoletti, "Tamtàm democratico", febbraio 2013

Chi infatti si riconosce nella sinistra, discute appassionatamente su che cosa sia veramente di sinistra, ma non si sogna di mettere in dubbio l’esistenza di una distinzione tra i due campi, perché tale distinzione è in un certo senso alla base della sua identità politica.

L’identità politica della sinistra, infatti, tende a costruirsi sulla base di una dialettica con la realtà esistente: se essa viene identificata con la passione per l’uguaglianza, essa sorge come denuncia e come rivolta nei confronti delle insopportabili ingiustizie dominanti; se essa viene identificata con il progressismo, essa sorge come protesta nei confronti del presente e come lotta per una trasformazione e un cambiamento di ciò che è; se essa viene identificata con la lotta per l’emancipazione, essa sorge come movimento di liberazione dalle catene che imbrigliano l’esistenza. Insomma è aspirazione a qualche cosa di diverso, che ancora non è dato e quando pure si fa governo e a modo suo instaura un ordine esistente, si premura di affermare che la realtà da essa costruita è solo un abbozzo di ciò che ha in mente e che sarà, ed è comunque altra rispetto a quelle altrove esistenti.

Anche la destra “pura” ha una natura dialettica, in sé negatrice di un’altra parte, la “sinistra” appunto, e non è un caso che tale destra schietta non abbia nessuna difficoltà a riconoscersi e proclamarsi tale. Chi invece fa fatica a dichiararsi e preferisce mettere in dubbio l’esistenza stessa di una destra e sinistra è spesso portatore di una posizione di conservatorismo, più o meno illuminato. Proclamandosi al di sopra delle parti o dichiarando le parti stesse (destra e sinistra) inesistenti o superate, mira a costituire attorno alle proprie posizioni un nuovo blocco sociale trasversale che neutralizzi ogni reale cambiamento.

Tale atteggiamento nega l’inevitabile parzialità di ogni posizione politica entro una dinamica competitiva, attribuendo a sé l’aura dell’imparzialità propria delle istituzioni. Ma con ciò compie solo un artifizio retorico di tipo propagandistico, perché anche tale atteggiamento finisce inevitabilmente per collocarsi dall’una o dall’altra parte dello schieramento politico entro una democrazia parlamentare.

Possono dunque mutare i valori caratterizzanti la dialettica destra/sinistra a seconda del contesto storico e geografico, ma ogni presa di posizione politica è occupazione di uno “spazio” politico all’interno di un orizzonte dato e, per quanto essa cerchi di scomporre il quadro esistente, essa finisce per doversi misurare con uno scenario più largo che ne definisce i contorni. In questo tentativo di negazione delle opposizioni esistenti e nella volontà di proporre un proprio orizzonte oppositivo (ad esempio la coppia “conservazione/innovazione” al posto di “destra/sinistra”) non si realizza il superamento della logica delle parti, ma solo la volontà di introdurre una diversa logica, a sé più favorevole. Come sempre la lotta per il potere è anche lotta per l’interpretazione o, più banalmente, lotta per l’individuazione dell’avversario da battere.

Dunque non si tratta di negare la dialettica destra/sinistra, ma di reinterpretarla nelle condizioni dell’oggi. E intrecciando motivi antichi e motivi a noi contemporanei, quattro crinali mi paiono significativi per la ricomprensione dell’essere sinistra oggi. Il primo di questi è la sfida dell’autogoverno, la sfida di chi vuole introdurre un più di autogoverno nella nostra vita di singoli e di comunità di fronte all’incalzare di poteri “altri” da noi che condizionano la nostra esistenza e pretendono di definirne i fini, la natura, i mezzi.

Vedo in questa sfida un capitolo dell’eterna lotta per l’emancipazione: dell’individuo umano che si vuole affermare come soggetto capace di autogoverno rispetto al dominio padronale o tribale e si batte per la propria libertà dal giogo dell’oppressione altrui. Liberazione mai compiuta che si compie attraverso atti di raccoglimento e di disciplina, cura di sé e ascolto dell’altro, ma che non rinuncia, in ogni caso, a porre la propria impronta sulla vita propria e su quella della propria comunità. L’ideale dell’autogoverno è ideale antichissimo che caratterizza la nascita dell’antica polis greca di fronte ai regimi dispotici dell’antichità e che attraversa i secoli ripresentandosi in età moderna e contemporanea come lotta contro l’assolutismo regio e la visione patriarcale del potere politico, come ideale repubblicano contro ogni autocrazia. Lo troviamo alla base del diritto di resistenza al tiranno, nonché del diritto a pensare con la propria testa e dunque a sottomettere ogni potere alla critica della ragione pubblica, alla base delle grandi rivoluzioni in America e in Francia e della lotta per l’emancipazione degli schiavi, dei lavoratori sfruttati, delle donne, dei popoli coloniali, delle minoranze di ogni tipo.

Questa è la sfida della democrazia, ideale di persone che si vogliono libere e si riconoscono uguali e per questo rivendicano per sé e per gli altri la possibilità di autogovernarsi. Qui democrazia non è semplice selezione di prodotti offerti dal mercato o dalle élites tecnocratiche, ma è fiducia nella capacità creativa del soggetto personale e associato di produrre pratiche di governo. Questo bell’ideale repubblicano – oggi così attuale di fronte ai rischi del paternalismo e della tecnocrazia (che si nutrono infatti della sfiducia nelle capacità di autogoverno del soggetto umano) – è l’ideale in cui si compie l’aspirazione emancipatoria: per questo oggi il partito della sinistra o del centrosinistra in Italia si chiama “democratico” perché ha riconosciuto nella democrazia il compimento degli ideali di emancipazione ottocenteschi. La democrazia – ossia l’autogoverno – non è più tappa intermedia verso un orizzonte più alto (il socialismo o la nuova cristianità) ma è il fine dell’azione politica e il socialismo o il liberalismo democratico sono semmai pratiche sociali che in un determinato momento storico possono contribuire a realizzare meglio il disegno emancipatorio.

Così – con chiarezza – si esprime la nostra Costituzione nell’indicare alla repubblica e ai suoi poteri il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno dispiegamento della vita personale in condizioni di uguali possibilità. E con ciò si supera anche ogni residuo paternalistico e autoritario pur presente in tante tradizioni sociali del passato che attribuivano al ruolo di un partito guida o di un’autorità ecclesiastica il compito di indicare al popolo il proprio destino storico.

Un secondo crinale è quello di un’antropologia individualistica o relazionale. Nell’affermazione primaria della sfida dell’autogoverno, che è anzitutto sfida della libertà singolare, non deve andare smarrita la trama delle relazioni umane, che invece l’individualismo tende a cancellare o a concepire come mero intralcio, vincolo da cui liberare l’individuo. L’idea di un individuo atomisticamente concepito è un’astrazione ideologica, una costruzione sociale. L’essere umano che tende alla cura di sé, nasce dalla cura di altri per lui e resta ad altri debitore del suo venire al mondo. La solidarietà ne è cifra biologica prima che morale e ne disegna la natura di essere parlante e ragionante in quanto comunicante.

La giustizia allora, valore perenne della sinistra, si scopre così inscritta nell’”essere” prima che nell’”agire” dell’uomo, come obbligo interno alle relazioni umane. E qui sta un tema crucialissimo delle relazioni sociali sia affettive che lavorative: perché l’incontro con l’altro, l’assunzione dell’altro non è riducibile a mero scambio di cose in una dinamica in cui l’essere umano stesso e il proprio fare è ridotto a cosa, a strumento del mio piacere o dominio, a mera merce. L’essere umano non perde mai la propria dignità, la propria eccedenza, la propria realtà indisponibile ad essere del tutto reificata, resa insomma mero oggetto.

Tale responsabilità che si contrae nella relazione, che già da sempre è nella relazione, non si può scaricare totalmente su un terzo (sia esso lo Stato o il mercato) ma rimane consegnata alla dimensione interpersonale, cioè propriamente “sociale”. Perché è proprio il carattere di socius che rimane per l’essere umano ineliminabile e che non può essere dismesso nemmeno nel venir meno della relazione per il sopraggiungere di eventi o di nuove consensuali decisioni. Da questa combinazione tra singolarità e relazionalità scaturisce il terzo crinale che è quello del pluralismo e dell’alterità. Perché nella relazione con l’altro che mi costituisce viene superato il monismo imperialistico e si apre lo spazio al coglimento della differenza. E lo spazio dell’umano si rivela così – proprio nella comunanza – spazio plurale, spazio sorto dall’esistere di una pluralità di esseri umani irriducibili al sé, che costringono il sé ad uscire dalla propria autocontemplazione, dall’illusione di essere tutto il mondo e dunque alla presa di coscienza della propria relatività.

E in ciò si innesta la coscienza del proprio limite e dunque quello sguardo laico che relativizza ogni propria posizione e sa cogliere nello sguardo dell’altro non solo un altro punto di vista, ma un altro punto di vista, ossia uno sguardo orientato sul vero e sul bene alla pari del mio, che esige riconoscimento e rispetto.

E ciò è diverso appunto non solo dal monismo imperialista di chi non riconosce altra posizione se non la propria, ma anche dall’oggettivismo tecnocratico che pretende esservi un punto di vista asettico e neutrale non dipendente da soggetti immersi nella storia. Ed invece è proprio la trama di dialoghi di soggetti diversi immersi nella storia, capaci di riconoscere e intessere la propria pluralità, che costruisce trame di relazioni e di significati diversi e comuni, che possono orientare e sorreggere il mondo. Infine il quarto crinale è la tensione utopica, la dialettica tra ciò che è e ciò che non è ancora, la passione e la speranza in un possibile mondo alternativo al presente. Questa tensione costituisce da sempre la fonte del distacco dall’esistente, il rifiuto della sacralizzazione del presente, il prodotto inevitabile della natura creativa e non meramente ripetitiva dell’animale umano, capace di dare vita a novità e non solo di riprodurre meccanicamente il già visto.

Visione progressista, certo, ma non nel senso banale che il domani sarà necessariamente migliore dell’oggi, ma nel senso più profondo che la storia dell’umano non può essere consegnata alla definitiva sconfitta da parte della morte e del dolore, ma contiene in sé una possibilità di distacco e di superamento dell’eterno scacco e che proprio la dimensione temporale in cui l’esistenza umana è inserita non ne segna solo la condanna alla consunzione, ma anche la possibilità di un riscatto. Appunto, come si diceva all’inizio, di una liberazione.