Dell’esito del voto mi sconcertano in particolare tre cose. La prima è che un terzo dell’elettorato ritenga che Berlusconi sia l’uomo politico che meglio possa rappresentare questo paese, che il signore di Arcore si sia fatto con le proprie mani, Mussolini fosse un grande statista che ha fatto qualche errore, Ruby la nipote di Mubarak e l’Imu potesse venir restituita a chi l’ha pagata.
Michele Nardelli, 27 febbraio 2013
Il fatto è che Berlusconi rappresenta meglio di chiunque altro non solo un certo modello sociale e culturale, ma anche la nostra parte peggiore e talvolta inconfessabile, tanto da mentire anche sulle intenzioni di voto. Un paese malato, che non ha saputo elaborare nulla della sua storia novecentesca e delle sue pagine più nere. E nemmeno di quel che è accaduto nella “seconda repubblica”, fra ritorno della P2 e stragismo, cultura plebiscitaria e scasso istituzionale, demolizione del welfare e solitudine sociale. Quel che scrivevo nelle ore precedenti il voto, si rivela alla luce dell’esito elettorale in tutta la sua gravità.
La seconda cosa che mi sconcerta non è il voto al partito di Beppe Grillo, fenomeno a pensarci bene non nuovo ed in una certa misura prevedibile. E’ l’opacità della politica nel non saper comprendere per tempo quel che stava avvenendo in questo paese, affidandosi sino all’ultimo ai sondaggi piuttosto che essere in grado di rilevare come Berlusconi fosse capace di interpretare e di intercettare meglio di chiunque altro gli effetti del berlusconismo. Questo ci descrive quanto siano appannati (se non del tutto svaniti) i sensori dei partiti verso i processi sociali e culturali di questo paese. Ci racconta di una politica che sorvola i territori, dove quest’ultimi sono ridotti a terminali acefali di macchine elettorali che si muovono fra sondaggi sempre meno affidabili e campagne pubblicitarie che si rapportano alla politica come un prodotto da vendere.
Il terzo aspetto che mi preoccupa è l’abisso che ci separa dall’Europa: nel voto, se pensiamo che lo schieramento “anti euro” viaggia non lontano dal 60% dei consensi, come nelle categorie della politica quando non sa comprendere che quello europeo non è un punto programmatico, ma lo sguardo ineludibile su un presente sempre più interdipendente. Sconcerta che l’Europa – nelle proposte elettorali come nelle intenzioni di voto – sia l’ultima delle preoccupazioni, la grande assente prima e dopo il voto se non in negativo. So bene quanto l’Europa non sia nelle corde degli italiani, non lo dico dunque come motivo di appeal elettorale, ma per prendere atto che la politica naviga a vista, incapace di guardare oltre l’orizzonte nazionale, sempre più fuori scala. L’Europa è parte di un altro schema di gioco che ha l’altra faccia nell’approccio territoriale. Questo, a mio avviso, significa cambiare. Non è la rottamazione, né l’aggressività con cui si imposta una campagna elettorale… e nemmeno la fatidica “conquista del centro”, categoria scomparsa insieme ai voti “moderati”. E’ un modo diverso di osservare i problemi e di pensare la politica.
Sento un po’ di amici in varie parti del paese e, nello sconcerto per l’esito del voto, mi rendo conto che ci si attende qualcosa. Non solo per uscire da questa situazione di impasse in cui questo paese si è cacciato. Su questo piano, l’aver conseguito la maggioranza seppur molto relativa tanto alla Camera e al Senato (qui i nostri sei senatori, per ore non conteggiati, fanno la differenza) pone la coalizione “Italia. Bene Comune” ed il suo candidato presidente Pierluigi Bersani almeno nella condizione di poter avanzare una proposta, anche perché tornare alle urne nel semestre di scadenza del Presidente della Repubblica non è possibile. E dunque l’unica cosa possibile è definire un programma minimo di cinque o sei cose da fare e su questo andare a cercare i numeri al Senato (dando per acquisito che alla Camera ci sono). E trovare una proposta di qualità (e largamente condivisa) per il nome del nuovo inquilino del colle.
Ma la domanda va oltre l’immediato e la discussione di queste ore se Renzi non sarebbe stato più efficace di Bersani mi sembra davvero stucchevole. Perché non è questo il punto. La necessità di un cambio di sguardo ci interroga innanzitutto se può essere il PD il protagonista di questo scarto. Non so rispondere. Avverto e condivido nelle conversazioni telefoniche semplicemente l’esigenza di intraprendere un percorso di pensiero e di relazioni con quel che i territori esprimono di interessante e che la politica non riesce (o non sembra interessata) ad intercettare. Non una proposta elettorale, ma un itinerario attraverso le regioni italiane (ma anche alpine e mediterranee) dove ascoltare, scambiarsi esperienze, interrogarsi sulle parole e immaginare che la politica possa trovare il terreno più consono ad una forte ristrutturazione, delle idee come delle forme dell’agire.
Cominceremo da qui, da questa nostra terra che ancora una volta si dimostra laboratorio di civiltà politica. Ma contestualmente intendo chiamare a raccolta i pensieri di mezzo che – come ho continuato a dire in queste settimane – insieme allo zaino delle terre alte vogliano dotarsi della topolino amaranto di una nuova narrazione regionale evocata nella “Leggenda dei monti naviganti” per percorrere le strade e i borghi che la politica nazionale non sa più vedere.