A fronte del progressivo peggioramento degli indicatori del mercato del lavoro, la politica ha il dovere di proporre azioni concrete, non slogan, per far sì che il principio cardine della nostra Costituzione si attui e non sia solo enunciato.
Alessandro Olivi, "Trentino", 9 febbraio 2013
Giorgio La Pira così al tempo illustrò il significato dell’art. 1 della Carta: «Il lavoro è il fondamento di tutta la struttura sociale, e la sua partecipazione, adeguata negli organismi economici, sociali e politici, è condizione del nuovo carattere democratico». Priorità nelle “agende” dei governi e parola d’ordine dei partiti in campagna elettorale il lavoro rappresenta la vera urgenza che deve affrontare il nostro Paese. Affermare che la Repubblica è “fondata sul lavoro” significa però ed innanzitutto non rendere quest’ultimo una mera conseguenza dell’economia, ma un fattore primario delle politiche economiche, un vero e proprio fattore produttivo.
In Trentino, grazie soprattutto alle politiche che la Provincia ha adottato con una vera e propria terapia d’urto a sostegno dell’occupazione, la situazione è meno grave che altrove, ma non possiamo certo chiamarci fuori, eludere questa priorità. Dobbiamo però partire dall’analizzare prima di tutto la causa di questo vero e proprio attentato alla coesione sociale. L’attuale crisi infatti ha messo a nudo gli effetti devastanti dell’alchimia finanziaria più speculativa. L’economia fittizia, quella di plastica, ha preso il sopravvento sull’economia reale. La stessa crisi dell’edilizia, che oggi sta «martoriando» anche il Trentino, non dipende dal venir meno dell’intensità della domanda pubblica, ma dalle distorsioni create dalla finanza. Un modello che mira a produrre denaro dal denaro, nel più breve tempo possibile. Il guaio della società dei servizi è che si è gonfiata oltremisura ed è diventata parassitaria nella misura in cui assorbe la crescita della disoccupazione. Solo l’economia reale è invece in grado di produrre lavoro e stabilità sociale ed il manifatturiero deve tornare ad essere la «sala macchine» dello sviluppo, perché da esso originano i concreti guadagni di produttività del sistema, attraverso le innovazioni incorporate nei beni utilizzati nel resto dell’economia. La produzione, inoltre, crea posti di lavoro mediamente qualificati e ben remunerati, tanto più se basata sulla conoscenza. Oltre a ciò per ritornare ad una economia che produca ricchezza, diventano prioritarie le azioni sul capitale umano, da cui dobbiamo ripartire per orientare la crescita e generare qualità nella convivenza. Se da una lato occorre rinforzare le iniziative a sostegno del reddito dei lavoratori sospesi o licenziati è sul fronte delle politiche attive che dobbiamo investire di più. Oggi in Italia c’è un’eccessiva divaricazione tra la domanda e l’offerta di lavoro, in un mercato che ha bisogno di flessibilità e di competenze sempre aggiornate. Una caratteristica del nostro sistema formativo, che contraddistingue in negativo l’Italia, è la scarsa propensione a combinare lo studio con le esperienze lavorative: meno del 5% quando la media europea è del 25%. E’ necessario fare un’analisi sui fabbisogni del futuro, preparare i giovani al lavoro di domani. Va ripresa la proposta di istituire una sorta di “borsa delle professioni”: bisogna realizzare percorsi formativi che siano in grado di accrescere le chance di impiego attraverso la tracciabilità delle competenze. E sotto questo profilo sempre di più si dovrà creare nuovo spazio per il lavoro manuale e tecnico. Questa è una responsabilità che non riguarda solo la scuola ma l’intero sistema coinvolgendo le imprese, i sindacati e ovviamente per prime le Istituzioni. Su questo tema si è svolto nei giorni scorsi a Rovereto un convegno promosso dal Centro Formazione Professionale G. Veronesi, che ha posto l’accento sulla necessità di una cooperazione tra tutti gli attori del sistema economico e sociale, per far si che da una rigenerata qualità delle imprese, si ricavino benefici in termini di dinamismo attivo del mercato del lavoro. Il riposizionamento strategico del sistema produttivo trentino non sarà semplice né indolore perciò occorre incidere con coraggio sull’educazione, sulla ricerca ed in genere sulla capacità di trasformare il sapere in valore economico, riportando al centro del dibattito il rapporto tra lavoro ed impresa, intesa quest’ultima come luogo di creazione di nuova ricchezza ma anche di valorizzazione dei saperi, specie per i più giovani, fattore di integrazione e finestra sul mondo. Dobbiamo infatti riconoscere che il nostro tessuto produttivo non è sempre in grado di assorbire competenze qualificate e per questo da anni vi è una continua erosione di competitività nonostante i massicci investimenti pubblici in formazione e ricerca compiuti dalla PAT. I talenti, intesi come portatori di competenza, devono poter trovare una struttura economica in cui poter finalizzare le loro aspettative di lavoro. Oggi i processi innovativi sono sempre più caratterizzati da cicli interattivi nei quali settori e discipline si integrano a vicenda. L’incontro di più competenze infatti è uno dei migliori fertilizzanti dell’innovazione. E’ necessario meno conformismo e maggiore coraggio nell’individuare nuove forme di produzione, collaborazioni tra i produttori, un diverso modello di sviluppo che investa sulla sostenibilità, sull’economia “verde”. Parliamoci chiaro: il Polo della Meccatronica, il progetto di Manifattura Domani, il Distretto della ICT incardinato in Trento Rise, i molti progetti orientati alla nascita di nuova imprenditorialità, devono fondarsi sull’idea forte di un’economia più competitiva attraverso un più fertile interscambio tra ricerca, agenzie formative, università, imprese. Non possiamo più permetterci isolate iniziative settoriali, con cui ognuno cura il proprio «orto». Serve lo sforzo comune per integrare davvero la formazione di ogni ordine e grado con l’istruzione accademica, la ricerca pubblica e privata con il mondo imprenditoriale più dinamico. Il nuovo Dipartimento di Ingegneria Industriale della nostra Università è una grande opportunità a condizione che si spenda in favore di un rapporto fecondo di interscambio con le imprese del territorio. Ritengo che anche grazie a queste politiche sarà possibile scongiurare il temibile vulnus della precarizzazione del lavoro, che contiene in sé la minaccia della povertà, rendendo diffusa l’accettazione di lavoro senza diritti. La necessità, o la paura della povertà, spinge a barattare un po’ di reddito con la rinuncia ai diritti collegati al lavoro e questa rinuncia automaticamente ci riporta indietro nel tempo, a un’epoca predemocratica, quando il lavoro era solo e semplicemente sudore in cambio di (poco) denaro. Questa è una prospettiva che va contrastata, battendosi con ogni energia disponibile. Anche perché lavorare non dà solo reddito. Dà dignità. Riconoscimento. Identità.