L. Patruno, "L'Adige", 1 maggio 2009.
Dario Franceschini arriva oggi a Trento per la prima volta come segretario nazionale del Partito democratico e lo fa volentieri perché qui il Pd è il primo partito e sono tanti i volti amici.
Darà il suo sostegno al candidato sindaco Alessandro Andreatta, alle liste del Partito democratico di Trento e Pergine e ai candidati «democratici» in corsa anche negli altri comuni dove domenica si vota per il rinnovo dei consigli comunali. Segretario Franceschini, alle elezioni provinciali del novembre scorso il Pd a Trento è diventato il primo partito con il 32%, nonostante mezza Margherita, con in testa il governatore Lorenzo Dellai, abbia dato vita all'Upt. Non le capiterà spesso di questi tempi di arrivare in una realtà così favorevole al suo partito. Quale pensa sia il segreto del Pd trentino? Mi pare che il Partito democratico del Trentino sia riuscito in modo eccellente a trovare il giusto equilibrio tra radicamento nel territorio e cultura dell'autonomia da una parte e appartenenza ad una grande forza nazionale dall'altra. I grandi democratici trentini, da De Gasperi a Battisti, da Bruno Kessler a Walter Micheli, hanno sempre pensato e agito così. Non hanno mai pensato la dimensione nazionale e internazionale come astrazione dal territorio: e per questo sono stati veri autonomisti. Ma non hanno mai pensato neppure che l'autonomismo potesse essere declinato come chiusura o autosufficienza: al contrario, si sono sempre sentiti parte e sono stati protagonisti di grandi vicende nazionali. A Trento città e a livello provinciale il Pd è al governo, ma non da solo. Guida una coalizione di centrosinistra autonomista. Ha ragione chi non ha mai creduto alla «vocazione maggioritaria» del Pd e spinge perché il partito coltivi le alleanze soprattutto al centro, con l'Udc, perché senza il centro il Partito democratico è condannato all'opposizione? La vocazione maggioritaria non va confusa con la pretesa di autosufficienza. Vocazione maggioritaria vuol dire, per il Pd, porsi l'obiettivo di rappresentare il Paese nella sua complessità, per costruire il necessario, vasto consenso, attorno ad un impegnativo programma riformatore e non rinchiudersi o lasciarsi rinchiudere in una nicchia minoritaria o identitaria. Questa strategia non è affatto incompatibile con la ricerca di alleanze coerenti sul piano politico e programmatico. Possiamo e dobbiamo costruire alleanze omogenee e coerenti, come quelle che ci hanno portato a vincere nel novembre scorso alla Provincia di Trento e che sono certo ci porteranno domenica a vincere le comunali qui in Trentino. Lei conosce bene l'esperienza politica trentina perché negli ultimi anni non ha mancato di essere presente ad ogni campagna elettorale, prima per la Margherita e l'Ulivo, poi per le primarie del Pd e per le ultime elezioni provinciali, cosa pensa del fatto che il governatore Lorenzo Dellai abbia deciso di non entrare nel Pd ma di affiancargli un altro partito più territoriale e di centro? Lorenzo Dellai ha avuto il merito storico di riuscire a convogliare verso il centrosinistra la gran parte del patrimonio elettorale e politico della Dc, al contrario di quanto è accaduto in buona parte del resto del Nord del Paese. Ha potuto farlo, grazie alle radici profondamente democratiche, «degasperiane», del mondo cattolico popolare trentino, che ha saputo interpretare con intelligenza e creatività. E ha potuto farlo perché ha scommesso sulla cultura dell'autonomia e del territorio, impedendo alla Lega di fare dell'Adige un affluente del Po. Quando a livello nazionale è nato il Pd, si è posto il problema di come portare tutto il grande patrimonio di consensi e di energie popolari che Dellai aveva organizzato nella Margherita trentina dentro il nuovo partito. Pur tra resistenze nazionali e locali, sia Veltroni che io stesso avevamo condiviso la scelta di accordare al Pd trentino la facoltà di costruire un proprio originale percorso, di dar vita ad un partito trentino che si federasse con quello nazionale: c'è una norma, nel nostro statuto nazionale, pensata e voluta apposta per il Trentino. Poi ci sono state le elezioni nazionali, ci siamo trovati in piena accelerazione di tutti i processi e si è dovuto scegliere un'altra strada: quella di affiancare l'Upt ad un Pd nel quale pure sono entrate personalità di primo piano della ex-Margherita: da Alessandro Andreatta, a Claudio Molinari, a Letizia Detorre, a Marta Dalmaso, a Luca Zeni, a Renato Veronesi, a molti altri. L'importante ora è lavorare insieme nel presente e non abbandonare la prospettiva di una progettualità comune sul futuro. Lei è un cattolico democratico, come il vostro candidato sindaco Alessandro Andreatta, e proviene dalle fila della Dc. Entrambi avete scelto il Partito democratico. Ma come fate a sentirvi a vostro agio nel Pd? Il presidente Dellai dice infatti che il Pd non è altro che «un moderno partito socialista» dove la «cultura del popolarismo portata dagli ex margheritini è stata archiviata troppo in fretta». Cosa risponde? Non solo nel Pd mi sento a mio agio, ma lo considero il felice compimento della mia storia politica. Vede, chi ha la mia età non ha potuto prendere parte né alla Resistenza, né alla Costituente, né alla ricostruzione del Paese e neppure alle grandi lotte sociali e civili degli anni Sessanta e Settanta, a quella «stagione dei diritti», come la chiamò Aldo Moro, che pur tra mille contraddizioni ha contribuito alla modernizzazione dell'Italia. Ma la nostra generazione ha lavorato dagli anni Settanta e poi con più forza dopo il 1989, dopo la fine della divisione del mondo in blocchi e la crisi definitiva del comunismo, all'incontro delle diverse culture e tradizioni democratiche e riformiste italiane, prima in un'alleanza, come è stato l'Ulivo, poi in un partito, il partito di tutti i democratici e riformisti italiani. Un partito nel quale nessuno è ospite dell'altro, perché quel che conta, quel che ci fa stare insieme, non è la storia dalla quale veniamo, ma il futuro che pensiamo per l'Italia. Ma su molte questioni non sembra che riusciate a trovare poi una linea comune Se discutiamo e ci dividiamo tra noi, come è fisiologico in qualunque grande partito libero, lo facciamo non sulle storie del passato, ma su dove vogliamo andare. Socialismo e popolarismo hanno collaborato e si sono scontrati, in Italia, per tutto il Novecento. Ora, a confronto con le inedite, grandi questioni del Duemila, devono mettersi insieme, tra loro e con molti altri, per cercare insieme un pensiero nuovo, oltre le idee del secolo scorso, che non vanno rinnegate, ma che non bastano più. Questa è la fatica e questo è il fascino del Partito democratico: un'impresa politica alla quale lavoriamo non per l'oggi, per passare un'elezione o una crisi di governo, ma per il domani, per il futuro dell'Italia. È ciò che la nostra generazione può lasciare di non effimero dietro di sé: è ciò che possiamo fare perché i nostri figli abbiano una democrazia più forte e una politica migliore. Alle elezioni europee la lista della Svp sarà collegata a quella del Pd, come cinque anni fa lo fu a quella dell'Ulivo. L'Unione per il Trentino invece non sosterrà la lista del Pd, ma è orientata a dare una doppia indicazione di voto: o l'Udc o la Svp. Come valuta questa scelta? La risposta sta nella domanda. Se la Svp avrà un rappresentante nel Parlamento di Strasburgo sarà perché ha stretto un patto con il Pd. Alla richiesta degli amici sudtirolesi noi abbiamo risposto sì d'istinto, senza neppure pensarci un attimo. Perché crediamo nell'autonomia e nel rispetto e valorizzazione delle minoranze linguistiche. Penso che se gli amici dell'Upt, pur mantenendo la loro identità e indipendenza come partito territoriale, votassero Pd alle europee, non solo si manterrebbero nel solco dei grandi democratici trentini, ma darebbero un contributo importante al rafforzamento del partito che più di ogni altro ha dato e dà ogni giorno prova di essere impregnato di cultura dell'autonomia: come dimostra, da ultimo, proprio l'accordo con la Svp. Sarà l'esito delle elezioni europee a stabilite se il Partito democratico avrà un futuro? Ho già detto che il Pd è un progetto per il futuro del Paese, un progetto pensato per durare, come durano tutti i grandi partiti democratici in tutto il mondo, ben oltre le alterne fortune dei cicli elettorali. Il Pd a volte vincerà e a volte perderà, ma è destinato a durare per i prossimi decenni. Dalle elezioni, in tutti i paesi normali, dipende la sorte dei leader, non dei partiti. Quando si perdono le elezioni, si cambiano i leader proprio per dare nuovo futuro al partito. Solo da noi è successo, negli ultimi anni, che si cambiassero i partiti per non cambiare i dirigenti. Ma anche questa cattiva pratica, col Pd è destinata a finire.