La politica del lavoro

Pochi mesi fa è stata formalizzata la chiusura della Molteni, una fabbrica di Lavis che produceva giocattoli in plastica. Una notizia che mi ha molto colpito: io stesso, da ragazzo, avevo lavorato d'estate presso quello stabilimento, giovane operaio alle prime esperienze nel mondo del lavoro. Ricordo i primi stipendi, la soddisfazione di qualche soldo guadagnato, la gratificazione di un'occupazione: ricordo anche la fatica del lavoro, gli orari da rispettare, la necessità di imparare. 
Bruno Dorigatti, 30 gennaio 2013 

La fabbrica, allora luogo ambito e rispettato, per molti della mia generazione ha rappresentato il paradigma del lavoro, in tutta la sua complessità: sforzo e fatica, da un lato, ma anche il vettore di un formidabile percorso emancipatorio, di affermazione individuale e collettiva. Attraverso il lavoro arrivò l'inserimento nella società, e da questo la voglia di migliorarla, di renderla più giusta, più ricca di opportunità per tutti: per alcuni fu l'inizio dell'impegno sindacale e politico, per altri rappresentò comunque un fattore di inclusione sociale.


Mi sono permesso di raccontare un pezzo della mia storia, perché mi sembrava un buon modo per proporre una modesta riflessione sull'attualità, in particolare sulla sempre più radicale spaccatura creatasi tra la politica, nelle sue varie forme, e settori molto ampi della nostra società. Mi sembrava corretto partire proprio dal lavoro, o meglio dalla sua insufficienza, per cercare di interpretare questo distacco, questa apparentemente insanabile disillusione rispetto alla possibilità di costruire - con l'azione collettiva- un futuro diverso e migliore. Citando commentatori ben più autorevoli di me, credo infatti che la scelta politica come "presa sul futuro" finisca per essere negata quando non esiste la "presa sul presente" garantita dal lavoro stabile e retribuito degnamente. La disoccupazione, l'incertezza salariale, la precarietà sono il frutto di politiche sbagliate, che escludono invece di includere: e chi si sente escluso dal campo di intervento della politica, per ovvie ragioni sarà portato a negarla e rifiutarla.


Il 2013 sarà un anno scandito dagli appuntamenti elettorali: a breve le elezioni politiche, in autunno le provinciali. Sarà la campagna elettorale, quindi, a caratterizzare il dibattito politico e a condizionare l'azione di governo. Purtroppo mi pare che questa campagna abbia già cominciato ad incentrarsi su argomenti assai distanti da quelli che sarebbe necessario affrontare: facili slogan su questioni che solleticano l'interesse dell'elettorato, ma che spesso rappresentano poco più che specchietti per le allodole. Il cuore, come sempre, è rappresentato dalle tasse e dalle promesse sul loro taglio: pochissimi attori di questa fase politica hanno invece il coraggio di parlare seriamente di qualificazione della spesa pubblica, che significa parlare sì di tagli (lì dove si annidano sprechi e privilegi) ma anche e soprattutto di incentivi all'occupazione, di istruzione e formazione, di servizi e sostegno alle famiglie. E' su questo fronte che si nascondono i problemi più grossi, perché il taglio dei servizi ha un effetto ancor più regressivo di quanto spesso non abbiano alcuni interventi fiscali: esso colpisce infatti i redditi più bassi e le persone in difficoltà, non certo i ceti abbienti. Ancora una volta le fasce deboli sono escluse dalla politica, innescando un circolo perverso di disimpegno e marginalizzazione.


E' allora auspicabile che questa campagna non diventi una lunga parentesi nella quale le forze politiche rinunceranno all'azione di governo, a favore di più remunerative - in termini di consenso- dispute sulle promesse elettorali: la nostra Provincia ha bisogno di un governo stabile, che affronti fino al termine della legislatura i temi sui quali la società trentina chiede risposte urgenti e concrete. A partire dal lavoro, sfruttando senza indugi la grande opportunità della delega dal Governo in materia di ammortizzatori sociali. Dobbiamo dimostrarci all'altezza di questo nuova sfida, per dimostrare che la buona politica è inclusiva e rivolta alla soluzione dei problemi di chi sta peggio: con sincerità e coerenza, doti che possono sembrare ingenue in campagna elettorale, ma che alla lunga finiscono sempre per essere un buon affare.