La recente sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito la legittimità dell’intervento delle norme nazionali in materia di liberalizzazione totale delle aperture e degli orari degli esercizi commerciali rigettando i ricorsi di ben otto Regioni italiane propone in tutta la sua irruenza una questione cruciale che va ben oltre il singolo tema di merito ma riguarda più ampiamente il rapporto tra libertà di iniziativa economica e potestà regolatrice pubblica. Alessandro Olivi, "L'Adige", 21 gennaio 2013
La Suprema Corte ha infatti ribadito il principio in forza del quale solo lo Stato è autorizzato ad emanare norme in materia di tutela della concorrenza e soprattutto che è lo Stato a poter determinare l’intensità di detta tutela. Ne discende in primo luogo un evidente superamento (forse sarebbe il caso di parlare di vero e proprio disarcionamento) delle competenze statutarie delle Regioni ivi comprese quelle a Statuto Speciale.E’ doverosa una premessa.Ormai nessuno e certamente non il sottoscritto dubita che la competizione rappresenti la linfa vitale dello sviluppo. A quest’idea si è via via sacrificata ogni curvatura protezionistica delle nostre politiche per l’economia. Quando si assegnano quote importanti della domanda pubblica con appalti europei non si fa altro che applicare questa visione aperta dei processi di crescita. Lo stesso dicasi quando si selezionano gli incentivi alle imprese privando spesso le aziende locali di un vantaggio competitivo. Oppure quando si riconoscono titoli e licenze conseguiti in ogni parte dell’Unione magari in modo più sbrigativo di quanto non avvenga dalle nostre parti.Spesso questa attenzione a non distorcere la libera concorrenza viene applicata sapendo che sarebbe più semplice, in un’ottica di ritorno politico a breve, governare l’economia con generose elargizioni e norme addomesticate. Ma resistendo alla tentazione si confida che il sacrificio immediato sia ampiamente compensato da un beneficio sociale differito che è il rafforzamento di un’imprenditoria solida, creativa e competitiva. Questa visione deve però basarsi su presupposti, a mio avviso irrinunciabili, che vorrei enunciare per mezzo di una metafora calcistica forse un po’ grossolana ma efficace: per avere una partita corretta e realmente competitiva occorre che il campo sia praticabile e che le squadre rispettino alcune regole sorvegliate da un arbitro imparziale. Nel mercato succede più o meno la stessa cosa. In mancanza di regole certe e soprattutto uguali per tutti la competizione può scadere in sopraffazione che è molto diversa dalla libera concorrenza e certamente è meno feconda.I limiti dunque al sacrosanto principio della liberalizzazione sono utili, per non dire indispensabili, per far sì che possano essere tutelati interessi generali di rango non quantomeno inferiore a quello della libertà economica. Mi riferisco alla tutela della qualità del lavoro, del pluralismo di impresa, del rispetto dell’ambiente e delle vocazioni territoriali. Le regole sono spesso indispensabili ad evitare il crearsi di vere e proprie posizioni di monopolio che inerzialmente si possono determinare per effetto di una liberalizzazione che premi i più forti e non i più meritevoli.Come ci ricorda il costituzionalista prof. Valerio Nida la tutela della concorrenza come principio costituzionale e del diritto comunitario non si identifica affatto con l’assenza di prescrizioni e di regole sull’attività economica cioè con la pura e semplice libertà di iniziativa economica. Pur richiedendo infatti la libertà di operare, la concorrenza non è una situazione statica, cioè data sin dall’inizio ed una volta per tutte, ma piuttosto una situazione dinamica che caratterizza un mercato aperto e come tale in grado di tendere a soddisfare al meglio gli interessi dei soggetti che partecipano al mercato stesso in posizioni diverse (dai produttori ai consumatori).Promuovere la concorrenza significa cioè agire in modo positivo anche fissando regole giuridiche purché siano finalizzate a creare condizioni di mercato aperto e concorrenziale. L’esercizio di una libertà senza regole può sfociare anzi in una riduzione o in una restrizione della concorrenza ossia in una distorsione della stessa e comunque in un funzionamento di mercato in senso contrastante con la tutela di interessi generali della popolazione e quindi con l’esigenza di una crescita equilibrata e soprattutto in un’economia che perde il suo imprescindibile carattere sociale.Vi è poi un’altra questione che è quella della praticabilità del campo di gioco, vale a dire la capacità del mercato medesimo, con i suoi automatismi, di allocare in modo soddisfacente le risorse economiche e sociali. Se ciò accade conviene non imbavagliare la libera concorrenza che farà dunque muovere la “mano invisibile” del mercato in modo così provvido che nessun soggetto pubblico o privato potrebbe eguagliare.Ma ove invece l’interesse generale non sia altrettanto garantito diventa indispensabile l’intervento pubblico regolatore con azioni dirette o incentivi che siano in grado di riassettare il terreno di gioco. Queste forme di intervento della autorità pubblica nei meccanismi dell’attività economica infatti sono ammesse, stante il taglio liberista della normativa europea, proprio per tutelare obiettivi di interesse generale ben definiti e raggruppabili secondo le tre classiche funzioni dello Stato: l’efficienza del sistema, l’equità e la stabilità economica.Ecco dunque perché la tutela della concorrenza non coincide con la semplice libertà di concorrenza. Infatti soltanto l’opportuna combinazione di interessi individuali con interessi generali è in grado di provocare la scintilla di uno sviluppo vero, socialmente sostenibile ed inclusivo. Ed è quanto, vorrei dire, la stessa Giunta provinciale sta coltivando con un’azione stimolatrice robusta ed articolata. La “mano visibile” dell’autonomia e quella invisibile del mercato possono stringersi in un patto di reciproco rispetto in grado di fertilizzare le migliori energie imprenditoriali a beneficio dell’intera comunità trentina.Le comunità infatti non sono tutte uguali, così come le imprese non sono tutte uguali. Un paese di montagna con poche centinai di abitanti non è come il centro storico di una città. Un agglomerato urbano non è equiparabile ad un territorio presidiato da paesi sparsi. Un piccolo esercizio di vicinato non è la stessa cosa di un megastore. Solo l’esercizio dell’autonomia territoriale consente di adeguare opportunamente le regole ai contesti diversi.Proprio attraverso il confronto con le parti sociali e le rappresentanze del Territorio si potranno liberare tutte le potenzialità creative che fremono nell’economia alimentandone un virtuoso metabolismo, senza dimenticare che l’Autonomia è uno strumento per cercare e valorizzare l’equilibrio tra interessi diversi e concorrenti tra loro. Anche il mercato non è un fine ma uno strumento e come tale deve essere in grado di produrre vantaggi per l’intera collettività. Tra questi vi sono la tutela della qualità del lavoro, dell’ambiente, del pluralismo e della diversificazione delle imprese che operano in un certo contesto comunitario.
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