La scienza politica ha individuato l’esistenza di una forte correlazione fra “primarie” e “modello di partito”. E’ lecito quindi domandarsi quale impatto le recenti primarie abbiano esercitato su un partito come il PD: hanno confermato tendenze già in atto o hanno introdotto novità sul piano politico ed organizzativo?
Alessandro Branz, 9 gennaio 2013
Naturalmente per rispondere a una domanda così complessa servono dati ed informazioni dettagliate di cui ancora non disponiamo. Ad esempio: quanti parlamentari uscenti, fra quelli che hanno candidato alle primarie, hanno una qualche chance di riconferma? Da dove provengono e qual’è l’estrazione politico-sociale dei nuovi candidati? Quanti sono gli elettori che hanno partecipato alle precedenti primarie e quanti votano normalmente PD? (sul punto si tengano monitorati i siti del CISE, Centro Italiano Studi Elettorali, e dell’osservatorio “Questioni Primarie”, ospitato sull’edizione online della rivista "il Mulino").
Tuttavia, pur in mancanza di questi elementi e nel mentre si stanno definendo le liste, proviamo a fare qualche preliminare ragionamento, sperando sia successivamente supportato dalle opportune rilevazioni statistiche. Partiamo da tre constatazioni: innanzitutto la grande partecipazione, che naturalmente è venuta scemando nel corso delle tre consultazioni, ma che è rimasta sempre molto elevata, dimostrando non solo un rilevante interesse da parte degli elettori, ma anche l’esistenza di un partito vivo e dinamico: perché -non dimentichiamolo- se l’imput all’effettuazione delle primarie è partito dalla Direzione nazionale del partito, sono stati i circoli di base e quindi i militanti e i volontari a consentirne lo svolgimento. In secondo luogo mi è parsa degna di nota la decisione di far seguire a quelle per la premiership le primarie per la scelta dei candidati al parlamento: sembra una banalità, ma ciò significa, nei limiti consentiti da uno strumento come le primarie, ricollocare il partito al centro dell’attenzione, dopo una consultazione tutta incentrata sulla leadership. Infine la registrazione che, per quanto oggetto di polemiche, appare un dato acquisito e accettato dagli elettori, che evidentemente vi hanno intravisto una possibile valorizzazione del proprio ruolo.
Tutti segnali positivi, dunque, che vanno nella direzione di un rapporto virtuoso fra primarie e partito. Anche se ovviamente siamo solo all’inizio di un percorso e non mancano le contraddizioni. Mi riferisco ad esempio al fatto che, anche in occasione delle primarie per il Parlamento, si è riproposta quella competizione fra bersaniani e renziani che aveva caratterizzato le due precedenti consultazioni. Il che, data la forte natura “correntizia” del confronto, può destare qualche preoccupazione: anche se, proprio su questo specifico terreno, stiamo assistendo ad un interessante ridimensionamento della contrapposizione, sia per il senso di responsabilità dimostrato dallo stesso Renzi (prodromico all’accordo di questi giorni con il segretario), sia perché i risultati finali hanno evidenziato come la frattura generazionale (vecchio/nuovo), che inizialmente era alla base delle critiche avanzate dal sindaco di Firenze, stia in realtà attraversando tutti i campi (assistiamo ad un forte rinnovamento anche fra i bersaniani), facendo con ciò venir meno le originarie ragioni di polemica. Ma v’è anche una seconda contraddizione da evidenziare, non meno importante delle altre: le primarie rischiano di favorire l’affermazione in periferia di leader locali, plebiscitati da risultati bulgari ed in grado di fare appello ad un proprio bacino personale di voti, anziché a quello del partito in quanto tale. Con la concreta possibilità di riproporre a livello territoriale quella “personalizzazione” della politica che si cerca opportunamente di combattere a livello nazionale.
Nel complesso, però, nonostante queste disfunzionalità che si possono correggere, mi pare di poter osservare che le primarie stanno progressivamente entrando a far parte della vita “ordinaria” del partito, senza stravolgerlo, ma anzi valorizzandone le potenzialità democratiche. Naturalmente si tratta di un processo tuttora in corso e dall’esito non ancora scontato, ma che -a mio avviso- avrà uno sbocco positivo se si terrà conto di tre avvertenze:
1) l’Albo degli elettori dovrà funzionare veramente e l’elettore dovrà essere opportunamente coinvolto ed informato, come componente di quella che i politologi individuano come una seconda “dimensione associativa” del partito, accanto a quella degli iscritti;
2) non ci si dovrà limitare a “selezionare” competitivamente i candidati attraverso lo strumento delle primarie, ma si dovrà recuperare il senso di una “formazione” dei gruppi dirigenti, attraverso l’acquisizione progressiva della necessaria esperienza politica ed amministrativa da parte di chi ambisce a ruoli istituzionali;
3) le primarie non dovranno costituire l’unico momento partecipativo: infatti un partito deve vivere anche (e soprattutto) di momenti e spazi permanenti di discussione e confronto, da attivarsi prima e dopo le primarie. Anche perché gli “eletti” rappresentano una componente fondamentale del partito, ma non l’unica: un partito è qualcosa di più complesso e diffuso, fatto di donne e uomini che vivono e lavorano a stretto contatto con la società reale ed i suoi problemi. Cosa che del resto proprio il successo di queste ultime primarie ha ampiamente dimostrato.