Il consigliere ha voluto mettere in risalto, in modo pacato e dialettico, quanto è stato fatto in questa legislatura, mettendo ad esempio a confronto passato e presente in alcune realtà di conflitto ambientale locale risolte, come la vicenda di Monte Zaccon in Valsugana, e analoghi conflitti ambientali come l’Ilva di Taranto e il Sulcis in Sardegna, problemi ambientali tuttora irrisolti e ben lungi dall’esserlo.Roberto Bortolotti, 13 dicembre 2012
Nardelli ha tracciato con pacatezza e in modo didascalico riflessioni legate al passato e riflessioni legate all’attualità; dimostrando così quanto è cambiato in meglio, il Trentino in questi ultimi 4 anni, ma anche in questi 14 anni di governo dell’Autonomia a guida di Lorenzo Dellai.
Il consigliere non ha nascosto e tralasciato di ricordare quello che non funziona e su cui si potrebbe e fare di più.
Ha ancorato, ad esempio, il suo ragionamento sul sistema cooperativo che è una peculiarità dell’economia del Trentino. Cooperazione che ha supportato in modo preponderante lo sviluppo della nostra Provincia, anche se in alcuni casi elementi di difficoltà nel controllo non hanno reso immuni queste strutture dall’effettivo controllo dei soci.
Un percorso che non finisce qui
"Il dibattito sulla legge finanziaria dovrebbe rappresentare il momento più alto nel confronto in quest’aula, tanto nel dialogo fra maggioranza e opposizione, come in quello fra le diverse sensibilità nella stessa maggioranza. Così è stato in passato e lo dovrebbe essere ancor più oggi nel volgere a conclusione di questa legislatura. Anzi, di un’intera fase politica, considerando che, con l’annuncio del Presidente Dellai, si conclude un percorso durato quattordici anni.
Ho avvertito invece toni apocalittici che non aiutano affatto il dialogo. Il confronto può essere anche aspro, ma non può seguire la logica dell’esasperazione o del “tanto peggio, tanto meglio”. Tanto che, nell’ascoltare taluni interventi, mi sono chiesto se vivo in un altro mondo…
Nella mia vita politica (nella mia lunga vita politica che non si misura solo nell’impegno istituzionale) sono stato per anni all’opposizione. Ne conosco la fatica e talvolta la frustrazione. Ma una cosa l’ho imparata e cioè che l’opposizione richiede comunque la ricerca di un terreno comune, in assenza del quale il dialogo s’infrange, saltano i ponti, l’avversario diventa nemico.
Questo terreno comune dovrebbe essere di volta in volta la Costituzione, la nostra stessa costituzione materiale (lo Statuto di Autonomia) e, prima ancora, le Carte fondamentali dei diritti, violando le quali viene meno il patto costitutivo. In questi anni è proprio questo spazio di dialogo ad essere venuto meno in Italia e la ri-discesa in campo di Berlusconi di certo non aiuta.
Ma questo terreno comune dovrebbe essere anche l’amore per la propria terra. Non credo si faccia il bene di questa terra usando le parole che si sono sentite nel descrivere il Trentino come “un sistema di potere corroso da metastasi”, “un ammasso di macerie”, dove “non ci sarebbe libertà di pensiero”, come “uno stato di polizia” e dove “le tessere di partito, piuttosto che il merito, condizionano le scelte”.
Posso capire la verve polemica, ma dobbiamo usare con prudenza le parole, sono quel che di più importante abbiamo. E per questo ho apprezzato la pacatezza dei consiglieri Viola e Eccher.
Come si può affermare ad esempio che oggi si starebbe peggio degli anni ’70 e ’80… Per ragioni anagrafiche e per scelta di impegno personale ho vissuto con intensità quegli anni. Ho davanti agli occhi un Trentino dal quale si emigrava (ricordo che ancora nel 1975 emigravano dal Trentino cinquemila persone). Ho in mente la povertà… come si viveva nelle famiglie operaie, lo scambio “lavoro-salute” nelle tante Sloi con le quali avevamo a che fare, la disperazione che prendeva i lavoratori colpiti dai primi fenomeni di cassa integrazione (il suicidio di alcuni operai della Michelin nel sentirsi buttati fuori e inutili), la crisi industriale degli anni ’80 (quando dall’opposizione ci inventammo la “legge scatola” che poi chiamammo “Progettone”).
Ho in mente il degrado e l’inquinamento del territorio, la cappa di fumo e di veleno sulla Samatec di Mezzocorona e sull’intera Valle dell’Adige, la mancanza di cultura ambientale.
E ci metto anche una nota personale. Ho in mente anche cosa fosse l’ostracismo verso chi la pensava diversamente, il vivere con il telefono sotto controllo, il non venir assunto in un’azienda per il semplice motivo di essere impegnato sul piano politico e sociale. So bene cosa sia tutto questo … ed altro.
Ma ciò nonostante, non ho mai condiviso l’idea di esasperare la lettura della realtà, perché così facendo si fa del male non solo a chi governa, ma al Trentino in quanto tale. Peraltro, il governo, chi governa, ha bisogno di un’opposizione che la sferzi e di spirito critico, anche quando viene dall’interno della stessa maggioranza. E ringrazio per questo Mattia Civico, per il suo intervento così esigente e rigoroso.
Purché vi sia almeno un po’ di obiettività. Non ho affatto paura del conflitto. Per tanti anni e ancora oggi (e spero fra non molto con rinnovata passione) ho lavorato sul tema del conflitto, a partire da quel che ci ha insegnato James Hillman, il padre della psicanalisi americana, quando scriveva “Le guerre non finiscono mai”. “Il tempo che non passa” ci raccontava il compianto Andrea Zanzotto e si riferiva proprio a questo, a quell’assenza di elaborazione del conflitto che poi altro è che una “narrazione condivisa”. Ed è proprio da qui che dovremmo partire, dalla ricerca dei tratti di narrazione condivisa della nostra terra. Invece in quest’aula la narrazione di questa nostra provincia e di questi quindici anni appare totalmente diversa.
Apro qui una piccola parentesi sulla nostra Regione. Qualche sera fa, a Villa Lagarina, nel corso di una scuola di formazione politica alla quale ho partecipato con Giorgio Lunelli e Lorenzo Baratter, si parlava di Europa, di Trentino e di Sud Tirolo… dell’importanza di guardare ad una regione alpina e all’elaborazione del Terzo Statuto. Si rifletteva del nuovo ruolo della Regione e di come ogni formula di ingegneria istituzionale non possa fare a meno di un ingrediente fondamentale, quello di riconoscere il dolore degli altri. Ho in testa un passaggio, forse quello che più mi è rimasto impresso in questi quattro anni di Consiglio regionale, ovvero un intervento di Elmar Pichler Rolle quando diceva, rivolgendosi ai rappresentanti dei partiti italiani del Sud Tirolo, che fin quando qualcuno non chiederà scusa per quello che è accaduto in quella terra nel corso del Novecento ben difficilmente ci sarà una vera riconciliazione. Se fra italiani e tedeschi non vi sarà un racconto comune o almeno una storia dai tratti comuni, non ci sarà nemmeno una vera condivisione istituzionale.
Ma torniamo a noi.
Bene ha fatto quindi Lorenzo Dellai a dedicare le prime pagine della sua relazione alla narrazione del Trentino. E dei risultati niente affatto scontati che si sono raggiunti.
Dobbiamo dircelo con molta onestà. Sono stati quindici anni di “navigazione solitaria”, in un nord segnato dallo spaesamento e dal rancore, in quel contesto di perdita di identità che creava smarrimento e solitudine sociale. Spesso mi trovo a parlare dei luoghi del rancore, di quella locanda che alberga talvolta anche qui: “i luoghi in cui gli umori diventano rancore e il rancore diviene progetto politico”. Noi in Trentino abbiamo cercato di essere altro.
Quali sono stati i tratti di questa diversità? In primo luogo l’autogoverno, l’autonomia dunque ed in primis la possibilità di intervenire nell’economia (a che dovrebbe servire la politica?). O ancora pensiamo alle capacità autoregolative del mercato? L’autonomia anche come uso intelligente delle sue prerogative per difenderci dall’omologazione che la globalizzazione induce.
In secondo luogo , la diversa struttura economica del Trentino, il suo diverso assetto proprietario. Perché dopo la PAT, il più grande soggetto economico è rappresentato dalla cooperazione trentina, con i suoi 275 mila soci, le decine di migliaia di lavoratori, i servizi erogati, il sistema delle casse rurali, i suoi 380 sportelli e 120 mila soci. La sua capacità di tenuta, nonostante la crisi.
Il terzo fattore di diversità è rappresentato dal volontariato, il valore che assumono i corpi intermedi e di cui ho recentemente parlato in una bella serata ad Albiano. Rappresentano uno straordinario fattore di coesione sociale, il vero antidoto allo spaesamento come ne parla Ilvo Diamanti. Il mondo della solidarietà non va inteso semplicemente come sistema di aiuti, ma come modalità di abitare l’interdipendenza, per essere parte di un comune destino terrestre. E meno soli. Come sguardo sul mondo, nella capacità di questa nostra terra di costruire relazioni che ci aiutino a comprendere quel che accade intorno a noi. Per aiutarci, dunque. Quante parole prive di senso sono state spese in queste ore…
Ci sarebbe anche un quarto fattore, riguarda il Trentino come terra di originale sperimentazione politica. In tutti questi anni non siamo stati a guardare, ad aspettare che da Roma venisse la l’input… ma ne parlo in seguito. Mi auguro solo che questa capacità di sperimentazione non venga meno. Ho lavorato per questo e ancora ci lavorerò.
E tutto questo al di là degli indicatori del benessere, che qualcosa pure vorranno dire. Provate a parlare di questa terra con il presidente dell’ISTAT Enrico Giovannini o con il presidente del Censis Giuseppe De Rita… Sono anche costoro al soldo del “principe”?
Certo, ciascuno di questi tratti di diversità può anche essere letto criticamente. Di un autonomia che si pensa come data una volta per tutte, di una cooperazione che talvolta ha smarrito le proprie ragioni sociali, di un volontariato che fatica a rinnovarsi nel pensiero… ma senza per questo disconoscere la qualità di questa nostra diversità.
Basterebbe un po’ di onestà intellettuale. Basterebbe guardarci attorno, in Italia, in Europa e altrove.
Detto questo, le sfide che ci attendono non sono affatto semplici. Dobbiamo in primo luogo interrogarci – e farlo in maniera rigorosa, non per avere conferme di quel che già pensiamo ma piuttosto per essere smentiti . E la prima domanda è la seguente: “Quanto siamo attrezzati di fronte alle sfide del presente e del futuro?”
Ci siamo detti in questi anni che dalla crisi si esce investendo sulla conoscenza. Quanto si studia? In questi giorni sono usciti i dati relativi alla lettura di libri in Italia. Dai quali emerge che il 53,8% degli italiani non legge nemmeno un libro in un anno. In Trentino andiamo un po’ meglio (la percentuale scende al 42,1) ma non può non preoccuparci il fatto che la spesa media mensile procapite per istruzione e cultura in Trentino sia scesa dal 7,3% del 1990 al 6% del 2010.
Come possiamo pensare di poter vivere di rendita con quanto abbiamo acquisito venti o trent’anni fa? Lo possiamo vedere nella resistenza al cambiamento che frequentemente troviamo nella Pubblica Amministrazione, nell’implementazione della riforma istituzionale, nelle sacche di conservatorismo. Lo si vede anche nell’onda lunga delle categorie di pensiero del Novecento, di quel “progresso scorsoio” di cui parlava Zanzotto, nel costruire cemento per far girare l’economia, nel delirio di voler piegare la natura alle logiche del profitto.
Lo vediamo anche nella fatica di immaginare un diverso modello di sviluppo. Gli anni di questa legislatura sono stati attraversati dalla crisi più forte che abbiamo conosciuto negli ultimi anni, che ha scosso non solo il Trentino ma il mondo intero. Ci siamo trovati a rincorrere le emergenze, a tamponare le falle, a tutelare il reddito dei soggetti più deboli. E tutto questo anche attraverso accordi aziendali necessariamente emergenziali, ivi compreso il leasing immobiliare, interventi che ho condiviso. Il che non ha impedito di impostare percorsi nuovi, che richiedono (proprio per il loro carattere innovativo) tempi di gestazione più lunghi.
Tempi lunghi, certo, non congiunturali. Oggi infatti dovremmo prendere atto che forse abbiamo sbagliato a parlare di crisi, perché quel con cui abbiamo a che fare è la normalità, una nuova realtà per nulla congiunturale.
C’è un dato simbolico in questo rincorrersi di passato e futuro. Abbiamo iniziato questa legislatura con la vicenda di Monte Zaccon e dell’acciaieria di Borgo Valsugana, la chiudiamo avendo negli occhi il dramma di Taranto, in fondo non diverso da quello dei lavoratori della Sardegna costretti a difendere un lavoro di minatore o nella siderurgia che ha devastato uno degli ambienti più belli del Mediterraneo. Vicende diverse, ma che portano con sé lo stesso significato paradigmatico attorno al tema della cultura del limite. Mi auguro che in questi mesi che mancano alla fine della legislatura riusciamo almeno a mettere in campo un percorso di riprogettazione dell’economia della Valsugana per non ritrovarsi a breve nella condizione di cinque anni fa.
Occorre immaginare un’economia capace di un salto di qualità, fondata sulla valorizzazione del territorio, delle sue caratteristiche e vocazioni. Per questo ho presentato una serie di emendamenti attorno alla questione dell’animazione territoriale, affinché venga riconosciuta come strumento di programmazione e di caratterizzazione dell’attività di Trentino Sviluppo.
Dobbiamo capire che investire sulla conoscenza significa anche cambiare l’approccio verso i problemi. Penso alla mobilità, che non è tanto Metroland (anche se l’idea di un collegamento ferroviario delle nostre valli non va a mio parere affatto abbandonata), quanto piuttosto la banda larga, la riforma del Sinet, ovvero il sistema informativo elettronico trentino che abbiamo da poco varato in quest’aula, le filiere corte, la rivoluzione del telelavoro, lo spostamento delle funzioni sul territorio, ovvero la vera scommessa delle Comunità di Valle. A guardar bene sono le riforme e alcuni degli investimenti innovativi di questa legislatura.
Significa investire nell’apprendimento permanente – che non è la scuola serale – ma la consapevolezza che uno degli ingredienti decisivi della rimotivazione delle persone è proprio il sapere.
E’, infine, l’attivazione delle risorse. In questo quadro va considerata l’idea del Fondo strategico per lo sviluppo territoriale. Ne ho scritto ieri su uno dei quotidiani locali, mettendo in rilievo che si è trattato di un esempio positivo nella dialettica fra consiglio e giunta. Ci si è chiesti in questi giorni quale avrebbe dovuto essere l’indirizzo di tale fondo. Rispondo che l’indirizzo l’avevamo dato in quest’aula un anno fa con il voto all’ordine del giorno n.38 alla finanziaria 2012.
Voglio qui solo aggiungere un aspetto di questa proposta che ritengo importante, quello di costituire un possibile esempio di sistema territoriale. La partita contro l’invasività della finanza globale la si vince solo (e forse) se sappiamo mettere insieme le risorse. Una grande alleanza dell’economia vera contro quella di plastica. Interessi anche tradizionalmente diversi che s’incontrano in un progetto territoriale. Non nel chiudersi autarchico nelle piccole patrie, ma in un territorio che accetta la sfida europea, imparando ad abitare questo tempo.
Che poi significa investire sull’Europa. Lo ho già detto in altre occasioni, ma lo voglio ripetere. Approccio europeo, federalismo e autonomia non sono affatto in contraddizione. E non sono nemmeno solo opzioni del pensiero. Corrispondono alla cifra reale dei problemi, che si presenta come territoriale e sovranazionale.
Prendiamo ad esempio il lavoro. Per lo stesso lavoro in Europa c’è chi guadagna 200 euro e chi ne porta a casa 3.000. Se non mettiamo mano a questa (ed altre) difformità, la delocalizzazione delle imprese devasterà il lavoro. Al contrario, ne verremmo a capo solo con un grande ed ambizioso progetto europeo. Ma abbiamo questa visione? La politica ha questa capacità di guardare oltre il qui ed ora? Sa prendersi la responsabilità di mediazione su scala europea? Io lo so bene che a remare contro l’Europa politica e federale non sono solo i partiti euroscettici, sono anche le categorie più forti, sono ad esempio i metallurgici tedeschi che non sono disposti a mettere in gioco un contesto che alla fine potrebbe risultare mortale anche per loro.
A guardar bene, si evidenzia il ritardo dei corpi intermedi, dei partiti, delle organizzazioni sindacali, del mondo associativo… nel loro attardarsi in una dimensione che appare fuori dal tempo. Ci sarebbe di che riflettere.
Anche per questo mi ha fatto piacere vedere che il titolo del prossimo Festival dell’Economia sarà “Sovranità in conflitto”. Perché ci costringerà a riflettere sul fatto che le sovranità di ieri non devono necessariamente essere quelle di domani. Non centra la rottamazione. Personalmente non credo né a quella delle persone, né a quella delle idee. Ci pone invece la sfida, grande, del rapporto fra modernità e tradizione. Dove la tradizione ci riporta alla necessità di elaborazione della storia e la modernità ci interroga sulla capacità di costruire sintesi nuove. Non riguarda, tanto per non essere equivocati, la nostra rete museale, ma i processi di cambiamento che stiamo conoscendo nella quale le categorie di progresso e di conservazione non riescono più a comunicarci nulla.
Anche qui, sempre a guardar bene, è questo il nesso chiave della “primavera araba”. E’ questa anche la chiave con cui pensare il futuro assetto dell’Europa, oltre le precedenti sovranità nazionali, per andare nella direzione di una dimensione istituzionale a geometria variabile. Questo potrebbe essere lo “spazio alpino o dolomitico”, queste sono le terre alte, strumenti per affrontare le interdipendenze globali. Lo sappiamo cogliere?
Per concludere. Le sfide davanti a noi sono davvero molte.
Finisce una fase che considero di grande valore e spessore. Personalmente, sono in Consiglio provinciale da quattro anni, ma l’impresa che abbiamo avviato per certi versi nel 1989, per altri nel 1992, per altri ancora nel 1998 (solo per indicare alcune delle date cruciali di un percorso politico che sento come mio e di cui mi considero protagonista) non finisce qui.
Lorenzo Dellai è stato uno dei principali protagonisti di questo percorso. Lo voglio ringraziare e mi auguro di cuore che il suo contributo possa proseguire nelle forme che saranno possibili e che vorrà immaginare.
Non finisce qui la navigazione. Negli ultimi mesi – a proposito della cultura del limite – mi sono occupato molto della figura di Ulisse, straordinaria metafora senza tempo proprio del limite. Attraverso la figura di Bekim Fehmiu che al personaggio dell’Odissea ha dato il suo volto e che scelse, di fronte all’incendiarsi del suo paese, dapprima il silenzio e poi il suicidio.
L’Odisseo, come lo chiamava con un pizzico di ironia Omero, era la figura di un eroe umano che non smette di cercare, che resiste alle sirene, che tiene alto lo sguardo, ma che si perde quando va oltre il limite delle colonne d’Ercole. Mi sembra davvero una straordinaria metafora per descrivere questo tempo.
E’ anche la sfida del Trentino. E anche della (buona) politica, nei dieci mesi che ci separano dalla fine della legislatura e anche per chi verrà in quest’aula dopo di noi."
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