Nel suo intervento a conclusione della Conferenza nazionale sulla famiglia, sabato scorso a Riva del Garda, Mario Monti ha dato un'altra dimostrazione di non essere solo un tecnico e neppure un politico, ma di possedere piuttosto le qualità dello statista. Ove per statista mi pare si debba intendere una personalità in grado di unire un paese, oltre divisioni tanto faziose quanto anacronistiche, e di farlo sulla base di una visione del futuro comune, in nome della quale, anche accettando di correre il rischio di una possibile, immediata impopolarità, fare appello al primato del senso del dovere collettivo, sulla pure legittima rivendicazione di diritti o interessi di parte.
Giorgio Tonini, "L'Adige", 30 ottobre 2012
Monti ha esplicitato questa sua visione nelle considerazioni conclusive del suo intervento, quando ha rivendicato al suo governo due importanti risultati politici: essere riuscito a far convergere e collaborare partiti che si consideravano non solo avversari, ma veri e propri nemici; e aver dimostrato che ci si può far ascoltare e perfino apprezzare dal paese, ragionando anziché gridando e cercando di convincere piuttosto che di sedurre.
Non avrebbe potuto esserci critica al tempo stesso più pacata e più severa del cattivo bipolarismo che ha caratterizzato la cosiddetta Seconda Repubblica: un bipolarismo che ci ha dato l'alternanza, dopo decenni di blocco del sistema politico italiano, ma non la governabilità, tanto meno la qualità riformista dei governi. Proprio perché quel bipolarismo, segnato in modo costitutivo dalla personalità di Berlusconi e dall'ideologia del berlusconismo, ha negato le due precondizioni del buon governo, giustamente rilanciate da Monti: la piena legittimazione reciproca tra gli schieramenti; e l'omogeneità politico-programmatica, in chiave di cultura di governo, all'interno di ciascuno schieramento.
Monti ha pronunciato il suo intervento a Riva del Garda, avendo al suo fianco il ministro Riccardi e il presidente Dellai, due dei principali protagonisti (insieme al segretario della Cisl Bonanni e al presidente delle Acli Olivero) dell'appello «per una terza Repubblica», promosso da Italia Futura di Montezemolo. Una piccola cosa, in sé, che sarebbe tuttavia sbagliato, da parte del Partito democratico, sottovalutare nelle sue motivazioni e nelle sue potenzialità, o peggio ancora, facendo prevalere il risentimento sul ragionamento, demonizzare come subalterna a qualche forma di «liberismo tecnocratico».
In effetti, come ha osservato giustamente Pierluigi Castagnetti sabato scorso, in una bella intervista all'Unità, l'appello firmato da autorevoli esponenti del cattolicesimo democratico e popolare è solo l'ultimo segnale di un disagio assai diffuso nell'elettorato cattolico: a destra, certamente e massicciamente, ma anche dalle parti del centrosinistra. E siccome i cattolici non sono più da tempo una categoria politica a sé stante, ma un campione rappresentativo dell'universo degli elettori, quello stesso disagio è diffuso in tutto l'elettorato centrale, quello che cerca proposte costruttive, di governo per il paese e non ne può più di chiamate di schieramento, di intruppamento fazioso, sulla base di logiche meramente oppositive e distruttive.
Non si può dunque non prestare grande attenzione a parole come quelle scritte pochi giorni fa su Europa da Andrea Olivero, con le quali il giovane presidente delle Acli chiama all'impegno per dar vita, nel prossimo Parlamento, ad una maggioranza politica fondata sulla continuità della stagione inauguratasi con il governo Monti e su un arricchimento della sua agenda (che resta imprescindibile in particolare nel suo radicamento europeistico), in chiave coraggiosamente riformista: sul terreno istituzionale, su quello di un innovativo patto fiscale tra impresa, lavoro e famiglia, fino al versante dell'integrazione dei nuovi italiani, a cominciare dai figli degli immigrati nati in Italia.
Non potrebbe esserci più chiara comunanza di ispirazione, di visione e di proposta tra questi orientamenti e quelli che sono alla base del Partito democratico: dal progetto del Lingotto, fino alla scelta di dar vita al governo Monti. Condivido quindi il pressante invito di Castagnetti a interloquire in ogni modo con questa nuova realtà.
Così come condivido la sua considerazione, per la quale questa nuova iniziativa dell'area cattolica democratica e popolare nasce al di fuori del Pd, anche a causa degli errori strategici nostri, a cominciare dall'aver consegnato all'oblio una delle ragioni costitutive del nuovo partito: il superamento del mito dell'unità della sinistra, in favore del progetto della casa comune dei riformisti. «Il nostro schema - dice con altre parole Castagnetti - mi è sempre parso un po' troppo scontato: la sinistra unita che si allea con un pezzo di centro. Ci siamo illusi che riunendo tutta la sinistra avremmo risolto tutti i problemi e ci siamo scoperti sull'altro versante».
Per riprendere la rotta, conclude Castagnetti, «dovremo fare scelte non facili, ad esempio qualche strappo a sinistra. Non possiamo lasciare che il nuovo centro si intesti il montismo e sbilanciarci troppo sulle posizioni di Vendola».
Una prima lettura, certamente a caldo, del pur difficile risultato che le elezioni regionali siciliane ci consegnano, comunque segnato positivamente dallo storico successo della coalizione al centro costruita da Crocetta attorno al Pd (e dalla parallela sconfitta di Sel e Idv), mi pare sia una conferma che questo riorientamento di linea del Partito democratico sia al tempo stesso necessario e vincente. Sarebbe cosa buona e giusta se venisse posto al centro della discussione delle primarie del centrosinistra.