Primarie: no a una raffica di scontri all'ultima preferenza

Egregio Direttore, ho trascorso la maggior parte della mia vita nel Sindacato. Un'organizzazione complessa, dove ogni giorno si vive la difficoltà di coniugare partecipazione e rappresentanza, autonomia e delega, la necessità del confronto e l'obbligo delle scelte. Non sono dinamiche esclusive dell'attività sindacale: al contrario, esse sono tipiche di quel modello di convivenza sociale e di governo politico che siamo soliti definire «democrazia».
Bruno Dorigatti, 15 settembre 2012

Questa considerazione ha alla base la presa d'atto che, in una società attraversata da tensioni e contraddizioni, la democrazia non possa che essere a sua volta non un dato di fatto rassicurante e scontato, ma una continua azione di mediazione e di confronto dialettico. Da sempre la politica è questo, e i partiti politici nascono con questa funzione di rappresentazione della società: come disse Rosy Bindi in un convegno  ... sulle trasformazioni del sistema democratico, quando i padri costituenti nell'articolo 1 della Carta affermarono che la sovranità appartiene al popolo, vollero sancire che «nessuno può appropriarsi né della sovranità né del popolo e nessuno può identificarsi con il popolo: né un leader, né un partito». Un partito che, come ho letto di recente, punta a rappresentare l'intera società, nella migliore delle ipotesi è un partito inutile: nella peggiore, uno strumento del totalitarismo.
Ammettere questo sarebbe un passo avanti e garantirebbe un elemento di chiarezza: che farebbe capire, ad esempio, perché il Partito Democratico è altra cosa rispetto al Popolo delle Libertà, e perché un'Italia governata da una coalizione di centrosinistra sarebbe diversa dall'Italia retta dal centrodestra. Ovviamente, questo presuppone che: 1) si voglia davvero governare; 2) si prenda atto che per governare bisogna mediare tra più partiti; 3) il progetto di governo sia chiaro, comprensibile e condiviso. Tutto questo, oggi, sembra un'illusione, tanta è la confusione nella quale ci agitiamo.
A livello nazionale, da mesi il dibattito interno al centrosinistra è monopolizzato dallo scontro tra Bersani e Renzi, al punto che viviamo nell'illusione che questo abbia davvero a che fare con le contraddizioni che lacerano il Paese.
A livello locale, è avvilente constatare che i contenuti dell'azione politica sono stati subordinati alla lotteria dei papabili candidati alla Presidenza della Provincia. Il mio partito sembra ormai incancrenito in un dibattito senza sbocco: un partito che, a forza di pensare al candidato ideale, è diventato un raggruppamento di «fans club», pronti a mobilitarsi per l'uno o per l'altro leader. «Bersaniani», «renziani». Intanto, fuori dal partito i cittadini trentini vivono con rassegnata indifferenza, se non con profondo fastidio, questo gioco di ruolo: si aspettano un progetto di governo, si offre loro la tombola dei candidati.
Questa non è dialettica politica: come ho letto di recente in un bel commento, questo assomiglia sempre di più ad un chiacchiericcio al limite del pettegolezzo. «Anche dove la critica ha per oggetto scelte politiche e non questioni personali, si avverte sempre una tendenza a generalizzare e radicalizzare il conflitto fino al limite della rottura». Le primarie sono diventate l'alfa e l'omega del confronto interno: si discute praticamente solo di questo, in uno scontro permanente per far prevalere non una linea, non un progetto politico, ma un leader piuttosto che un altro. Questo è il risultato di una visione messianica dello strumento delle primarie, nate per avvicinare il partito alla società e diventate invece una sorta di vangelo recitato solo nelle stanze del partito e incomprensibile all'esterno. Come ha scritto Sergio Chiamparino, per ottenere il consenso bisogna dimostrare di non essere solo «palazzo»: bisogna parlare la lingua che i cittadini parlano ogni giorno, non la lingua che parliamo nei circoli o nelle riunioni politiche. E, spiace dirlo, la parola «primarie» non fa parte del vocabolario comune, nonostante ci si illuda che sia così e la si utilizzi come un mantra.
Con questo non voglio affatto dire che le primarie non siano uno strumento valido: penso a Milano, dove sono servite a selezionare un candidato sindaco autorevole e accettato da tutta la coalizione. Diverso è il caso delle primarie utilizzate non a coronamento di un progetto di governo, ma a nasconderne l'assenza. Se una coalizione, che punta a governare, non si dà dei precisi riferimenti programmatici, quali saranno i criteri per decidere chi può partecipare alla selezione del candidato presidente? Oppure ci diciamo che tutti possono partecipare, a prescindere da un confronto sul progetto di governo, e poi chi prende un voto di più impone la sua linea a tutti? Il paradosso di un Trentino (o di un'Italia) governato da un leader espressione di una minoranza di un partito, non basta ad imporre una pausa di serena riflessione?
Io credo che questa non sia nemmeno una sfocata fotografia della democrazia, ma il suo esatto opposto. Per usare le parole ben più autorevoli di un noto costituzionalista, «democrazia è convivenza basata sul dialogo», è innanzitutto confronto di idee e programmi: non è un meccanismo formale per stabilire se la mia idea sia migliore della tua, per farla affermare e imporre su tutto e tutti. C'è un momento in cui questa «conta» avviene: sono le elezioni, e lungi dall'essere il cuore della democrazia, ne rappresentano solo uno dei fattori. Replicarne all'infinito lo svolgimento, attraverso il proliferare di passaggi elettorali più o meno codificati, è quindi solo un alibi per nascondere l'incapacità del sistema politico di costruire, attraverso una «sintonia dinamica» con la società, una reale legittimità della rappresentanza, e non una ennesima delega a scatola chiusa.
Prima della scelta di un leader, così come prima di una qualsiasi deliberazione, ci deve essere il confronto, l'analisi condivisa dei pro e dei contro, la definizione di un percorso: persino, lo dico senza patetismi, uno spirito di simpatia, una capacità relazionale, un «sentire comune». Tutti elementi, questi, che nel Partito Democratico non sembrano essere di casa e che una raffica di scontri all'ultima preferenza faranno scomparire definitivamente.