Caro direttore, intervengo sul suo editoriale di domenica scorsa, eloquente fin dal titolo: «La sindrome dei perdenti». Che poi altro non sarebbero che i dirigenti del Partito Democratico nazionale. La sua analisi è per certi aspetti condivisibile.
Alessandro Andreatta, "L'Adige", 14 settembre 2012
Soprattutto quando dice che il nostro è un Paese «imprigionato dalle lobby, dalle rendite di posizione, senza più mobilità sociale e speranza di miglioramento per i giovani». Purtroppo, è questo il Paese che ci è stato consegnato dal Ventennio luccicante e scialacquatore che ci siamo lasciati alle spalle. Noi oggi stiamo camminando sulle macerie, come quelle di Cartagine distrutta dai romani, bruciata e poi cosparsa di sale, perché non potesse più risollevarsi. Se questo è lo stato del Paese, certo la politica non può non risentirne. Perché i politici altro non sono che lo specchio e l'espressione del nostro Paese, perché quella economica, a mio modo di vedere, non è la crisi più grave di questa nostra Italia: il disorientamento morale, il dissesto culturale, il disincanto diventato presto disperazione sulle prospettive della nostra vita pubblica non sono meno preoccupanti dei dati riguardanti il Pil è lo spread.
Allora, caro direttore, è vero come lei scrive che anche nel centrosinistra la politica oggi non è sempre quella che noi vorremmo. È vero che c'è bisogno di uno scossone e che la candidatura alle primarie di Matteo Renzi non può che fare bene al Pd, visto che unanimismo fa rima con immobilismo. È vero anche che chi ha trovato il tempo di attaccare Renzi con argomenti tesi a delegittimarlo ha fatto una magra figura: perché non è distribuendo patenti di idoneità che ci si confronta, che si affinano le idee, che si misurano i progetti. Tanto più quanto si lavora tutti dalla stessa parte della barricata.
Però c'è un altro aspetto da considerare. Lei giustamente se la prende con la gerontocrazia italiana, come se il «male» fosse solo un fatto generazionale. Lei se la prende con l'incapacità del Pd di esprimere veri leader: eppure, se guardiamo bene, è un ultraottantenne, formatosi nel Pci e nei partiti che al Pci sono succeduti, fino all'odierno Pd, ad avere preso in mano il timone dell'Italia in un momento in cui sembravamo destinati a sprofondare nelle sabbie mobili, in cui tutto sembrava perduto, anche la credibilità, in cui il rischio default era lì, a pochi centimetri da noi. Questo per dire che non è sempre questione di età né di appartenenze politiche: è questione ancora una volta di uomini, di idee, di coraggio anche. Del resto, basti pensare ai ministri giovani che, nel passato governo, si sono fatti alfieri del vecchio, della conservazione, della difesa di lobby tutt'altro che nobili. Basti pensare a come l'inesperienza è stata talvolta contrabbandata per modernità e per cambiamento.
Sia chiaro: non difendo chi è invecchiato in parlamento o occupando qualsiasi altra carica pubblica. Ma credo che non siano i proclami a svecchiare la nostra classe politica. L'unico modo, come ha sottolineato proprio qui a Trento il presidente nazionale delle Acli Andrea Olivero, è quello di ridare ai cittadini il potere di scegliere i propri candidati, di eliminare i listini o listoni bloccati, di scrivere sulla scheda elettorale la propria preferenza. È il voto lo strumento più potente per selezionare, scremare, svecchiare la nostra dirigenza politica.
Non credo che il Pd abbia la vittoria in pugno alle prossime elezioni politiche. La vittoria bisogna conquistarsela mettendo in campo gli uomini migliori e, soprattutto, il progetto migliore. Nessun timore allora per la sfida di Renzi, nessun timore per le primarie anche se, come ha sottolineato il vicepresidente della Provincia Alberto Pacher, è anomalo che nell'agone ci sia il segretario del partito, già candidato premier designato secondo lo statuto. Guai però ad assolutizzarle, come se fossero l'unica molla capace di cavare le castagne dal fuoco a livello locale o nazionale.
Mi spiego meglio: le primarie possono essere uno strumento per individuare il candidato più adatto o per far emergere grazie alla forza dei numeri la proposta politica più lungimirante. Peccato che siano state e vengano tuttora invocate da taluni non per favorire il confronto tra punti di vista e soluzioni diverse, non per dar modo agli elettori di una coalizione di scegliere la donna o l'uomo in grado di rappresentarli al governo di una città o di un Paese, ma per altri fini: per appagare la smania di protagonismo di qualcuno o per occultare l'assenza di un candidato forte oppure per innescare guerre intestine o ancora per aumentare il proprio peso politico in contrapposizione a un candidato già dato per vincente.
Questo per dire che in politica non esistono ricette assolute né procedure buone per tutte le stagioni. Non sempre il vecchio è da buttare e il nuovo da preferire. E non sempre le primarie sono foriere di novità: a Genova hanno consegnato la candidatura e la città ad un outsider, a Palermo sono fallite visto che alla fine, a vincere le elezioni, è stato un politico che alle primarie non aveva neppure partecipato in prima persona.
Concludo con un doppio auspicio: che le donne e gli uomini del Pd parlino sempre meno di se stessi, di regolamenti interni, di lotte intestine e si dedichino piuttosto alla loro vera missione, che poi è la rappresentanza delle esigenze del territorio e la soluzione dei problemi del Paese. Un bagno di realtà è l'antidoto più potente alle contrapposizioni sterili e anche alla falsa dicotomia tra rottamatori e veterani della politica. Il secondo auspicio è che venga approvata presto una legge elettorale onesta, che restituisca ai cittadini la responsabilità e il diritto di scegliere le persone destinate a governare l'Italia nei prossimi anni.