L'Europa si è rinchiusa in una gabbia dalla quale è assai difficile, se non impossibile, uscire. La divergenza economica si sta infatti trasformando in divaricazione politica, alimentata da opposti populismi, entrambi euroscettici, quando non antieuropeisti.Giorgio Tonini, "Trentino", 7 settembre 2012
Divaricazione tra i paesi in surplus, che lamentano i costi eccessivi e il moral hazard della "solidarietà", nei confronti dei "paesi cicala"; e i paesi indebitati, sempre meno propensi a sopportare l'imposizione, da parte dell' "egoismo" dei più forti, di un rigore finanziario dal sapore punitivo e che produce effetti depressivi sul piano economico, oltre che destabilizzanti su quello sociale. Per uscire dalla gabbia nella quale si è rinchiusa, l'Europa ha bisogno di due chiavi: una sta a Berlino, l'altra a Roma. Al progressivo rinchiudersi della Germania nel suo angusto "ordoliberalismo", come lo chiamava Padoa-Schioppa, abbandonando il tradizionale approccio europeista, di stampo federalista e comunitario, ha infatti corrisposto la fuga dell'Italia dalle responsabilità che aveva liberamente assunto, con se stessa e con gli altri europei, quando aveva deciso, nel 1996-1997, di entrare da subito nell'Unione monetaria. Un errore tragico, ulteriormente aggravato dall'effetto devastante che ha avuto il berlusconismo, nel duplice senso di ideologia della libertà come licenza e come stile di vita all'insegna del "libertinismo devoto", sull'immagine dell'Italia nelle più vaste opinioni pubbliche nordeuropee. E sul progressivo ritrarsi da qualunque disposizione alla solidarietà europea nei confronti delle "cicale" mediterranee (e italiane in primis), da parte delle "formiche" nordiche. Se tutto questo è vero (e a noi pare difficilmente negabile) è del tutto evidente che dalla gabbia nella quale l'Europa si è cacciata, a causa della speculare mancanza di visione e di responsabilità degli stati del Nord come di quelli del Sud, riusciremo ad uscire solo agendo contemporaneamente su entrambe le chiavi: quella "tedesca" e quella "italiana". Questo nuovo patto, il nuovo "compromesso per l'Europa", non può che basarsi sullo scambio politico, sul terreno della finanza pubblica, tra rigore fiscale (pareggio strutturale del bilancio) da parte degli stati, monitorato e certificato dalla Commissione (con automatismo di eventuali sanzioni) e misure di sostegno nel percorso di rientro dal debito eccessivo, da parte di strumenti comunitari, come la garanzia di ultima istanza da parte della Bce, insieme a strumenti di gestione "federale" del debito (tipo Eurobond). Non è questo, del resto, il patto federativo sul quale si fondano gli Stati Uniti d'America? Il problema è come arrivarci. Monti ritiene, a ragione, che l'unica via sia quella di rompere lo schema che oppone le formiche nordiche alle cicale mediterranee. E infatti, fin dalla sua costituzione, il governo italiano ha sorpreso l'Europa spalancando le porte che Berlino voleva sfondare: sì al pareggio di bilancio, subito e senza sconti. E non perché ce lo chiede l'Europa, ha ripetuto più volte, ma perché è interesse vitale dell'Italia uscire dalla tossicodipendenza da debito pubblico. Riforme dal lato dell'offerta, che promuovano la crescita della produttività nei paesi oggi meno competitivi, debbono in ogni caso accompagnarsi a politiche di aumento della domanda aggregata, sia nei paesi oggi più frenati e in forte avanzo commerciale, sia attraverso grandi investimenti federali, finanziati (sulla linea proposta nel Libro Bianco del 1992 da Jacques Delors), attraverso l'emissione di titoli europei. Sono queste le idee-chiave del nuovo "compromesso per l'Europa" cui il governo Monti ha ispirato la sua iniziativa, capace di produrre in pochi mesi risultati "impressionanti", e di interrompere la fase, durata troppo a lungo, dell'incomunicabilità tra Roma e Berlino. Ma un nuovo patto di stabilità e crescita europea presuppone un salto di qualità politico-istituzionale e, in definitiva, di cultura politica. Le chiusure dell'ordoliberalismo nordico, come l'irresponsabilità della via mediterranea al deficit-spending, possono essere entrambe superate solo in un nuovo federalismo europeo, che consenta di utilizzare appieno la forza della democrazia per un rilancio e un rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Si può metterla in modo politicamente più chiaro e incisivo: superare il paradigma neo-conservatore e promuovere in Europa una via d'uscita dalla crisi, analoga a quella che Obama propone agli Stati Uniti, sarà possibile solo se i Democratici sapranno guardare avanti e non indietro. Rinchiusi nella dimensione nazionale, i Democratici, i riformisti, i progressisti europei potranno solo chiedere deroghe e sconti, sul piano sociale, rispetto alle politiche di rigore imposte da Berlino attraverso Bruxelles: la ben magra prospettiva di una strategia tutta difensiva. Solo se si porranno l'obiettivo di conquistare un terreno di gioco veramente europeo, le ragioni dei Democratici potranno essere avvertite come una speranza concreta da parte dei popoli e quindi prevalere nel governo dell'Europa. Di fronte all’affievolirsi delle ragioni costitutive del processo di integrazione, di fronte all’afasia delle famiglie politiche europee, i tempi sono maturi per porre al centro dell’agenda politica europea, attraverso una iniziativa coraggiosa, tenace, determinata dell’Italia, paese fondatore, il paese di De Gasperi e Spinelli, l’obiettivo storico dell’elezione popolare diretta del presidente degli Stati Uniti d’Europa. I Democratici debbono fare di questo grande obiettivo storico una loro bandiera, attorno alla quale intraprendere una battaglia politica, culturale, civile, in Italia e in Europa. La strada è tutta in salita, ma va nella direzione della storia: l’alternativa, per l’Europa, per i paesi e i popoli europei, è la disgregazione e in definitiva l’irrilevanza nel mondo.Brano estratto dal libro “L’Italia dei democratici - Idee per un manifesto riformista” uscito in queste ore da Marsilio, autori Enrico Morando e Giorgio Tonini.
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