Domenica scorsa 8 luglio, con un suo editoriale, il direttore del Corriere del Trentino Enrico Franco si interrogava sulla necessità di riconnettere istituzioni, politica e società civile. Un tema di grande rilievo sul quale ho scritto questo commento oggi pubblicato sul medesimo quotidiano.Michele Nardelli, "Corriere del Trentino", 10 luglio 2012
L'editoriale di domenica pone il tema del dialogo fra i cittadini, la politica e le istituzioni, in un tempo nel quale sembrano piuttosto prevalere gli anatemi. La politica vive di dialogo, scrive Enrico Franco, e mi trovo d'accordo.
Per il dialogo servono anzitutto due cose. La prima è saper ascoltare. La seconda è aver qualcosa da dire. Per la verità ci sono anche altri aspetti, come ad esempio la disponibilità a mettersi in gioco e a cambiare, oppure la consapevolezza che nella vita di ognuno di noi ci sono stagioni diverse che dovrebbero predisporci alla bellezza del passare la mano, concetto piuttosto diverso da quel "rottamare" che considero l'odioso prodotto di un tempo usa e getta. Ma il discorso si farebbe troppo lungo.
Saper ascoltare. Che, si badi bene, non significa affatto asecondare l'aria che tira, cercare facile consenso nel rincorrere gli avenimenti, diventare la buca delle lettere di ogni istanza, dando fiato a chi grida più forte pur di cavalcare gli umori o il giardino di qualcuno. E nemmeno cercare di avere conferma delle proprie idee, quando si ripropongono chiavi di lettura che non riescono più a descrivere la realtà. Ascoltare è soprattutto cercare di comprendere quel che sta accadendo in un mondo in rapida trasformazione. Significa interrogarsi sul passato, elaborarne il racconto, imparare dalla storia. Vuol dire essere attenti ai processi di cambiamento, abitare i conflitti per comprenderne la natura, mettere a confronto esperienze diverse, cogliere i nessi di un villaggio globale interdipendente. Significa studiare.
Se questo vale per ciascuno di noi, il che non è affatto scontato se penso al silenzio degli intellettuali, dovrebbe valere a maggior ragione per i corpi collettivi, siano essi istituzioni, partiti, organizzazioni sindacali e sociali, associazioni... media compresi. Ma, a quanto pare, non c'è il tempo per farlo. Nel delirio del fare, l'ascolto, la capacità di scrutare il tempo, sembra diventato un lusso. Passiamo invece da un'emergenza all'altra, ma nell'emergenza approfondimento e processi partecipativi hanno scarsa cittadinanza. Ci diciamo che la conoscenza è la vera risposta alle situazioni di crisi, ma poi non sappiamo essere conseguenti e navighiamo a vista. Se accade che le istituzioni abbiano la lungimiranza di farlo, c'è subito qualcuno che grida al denaro buttato al vento perché tutto ciò che appare immateriale viene considerato superfluo, addirittura spreco.
"Fatti, non parole" si sente acclamare, forse ignorando che l'agire in assenza di pensiero è quanto di più vacuo e insostenibile ci possa essere. L'esperienza mi ha insegnato come non vi sia nulla di più inconcludente, miope e talvolta negligente di un operare privo di conoscenza dei contesti.
Tutto questo vale oltremodo per la politica, il cui orizzonte fatica ad andare oltre le cronache dei giornali. Non tutta la politica, generalizzare è un'altra cosa odiosa di questo tempo. Ma la politica ha di certo una responsabilità in più, perché dovrebbe essere nella sua natura la capacità di leggere la realtà, magari provando a dare qualche risposta affinché l'individuo possa sentirsi un po' meno solo.
Qualcosa da dire. Eccoci dunque alla seconda cosa: per rendere il dialogo proficuo (o semplicemente perché vi sia) occorre aver qualcosa da dire. Annoto che in genere ci si ferma al primo aspetto, come se il metodo (che peraltro ritengo sostanza) potesse essere sufficiente. Un'idea di futuro. Non il semplice giocare a rimpiattino. No, no... rischiare di dire qualcosa. Che possa trovare conferma, o essere smentito. Saper cogliere le dinamiche, proporre delle soluzioni, compiere delle scelte che non siano solo contingenti. Qualche esempio?
La crisi finanziaria ci ha colti impreparati e abbiamo continuato a considerarla un fenomeno congiunturale. Per anni gli economisti ci avevano spiegato che il mercato si sarebbe autoregolato e così sono proliferati i titoli derivati che hanno trasformato l'economia in un immenso casinò. Chi ci metteva in guardia è rimasto inascoltato. Tanto che interrogarsi sul limite, su un'economia vera che sappia riconciliarsi con la terra, continua a cozzare contro il delirio della crescita illimitata.
La primavera del Mediterraneo ha riaperto un dialogo che in nome di un presunto "scontro di civiltà" era stato interrotto. Perché quello che siamo lo dobbiamo in buona parte al nostro mare, alle culture e ai saperi che l'hanno attraversato. Anziché cercare di capire e riannodare i fili di un pensiero interrotto, abbiamo scelto di affermare superiorità militari. Così, fino all'ultimo, le nostre diplomazie hanno preferito fare affari con i regimi che cogliere quel che maturava nel profondo delle società. A guardar bene, bastava saper ascoltare il grido dei giovani di Gaza.
L'Europa era la risposta, negli anni '90 come oggi, all'implosione dei Balcani, all'idraulico polacco simbolo della deregolazione del mercato del lavoro, agli umori che diventano sordo rancore. Nonostante la cifra di ogni problema sia insieme sovranazionale e territoriale, il progetto politico europeo non è mai stato così in crisi e la riforma della politica in chiave territoriale non sembra essere nelle corde dei partiti nazionali.
Il non saper ascoltare, l'aver poco o nulla da dire, produce distanze. Fra un passato che non passa e un futuro che, in assenza di elaborazione del passato e di nuove sintesi politico-culturali, si ripresenta come farsa. Temo che questo riguardi tutti, la politica, la società civile, l'informazione, i corpi sociali, gli individui. Produce anche asimmetrie nel rapporto fra rappresentanti e rappresentati, che non si superano solo con qualche regola in più.
Occorre ricostruire un senso collettivo. E credo che per farlo dovremmo fare un passo di lato per mettere a fuoco e darci una diversa profondità di sguardo, interrogandoci senza demagogia sul valore della politica come impegno civile, sulla necessità di rivedere i nostri consumi come condizione per un nuovo umanesimo, sulla fatica della conoscenza come scelta di responsabilità.
Voglio dire che se la primavera "tarda ad arrivare" non lo possiamo addebitare sempre a qualcun altro.
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