Non sappiamo ancora se i partiti di maggioranza (Pdl, Pd e Terzo Polo) riusciranno a mantenere uno dei principali impegni presi davanti al paese al momento del varo del governo Monti. Giorgio Tonini, "L'Adige", 19 giugno 2012
Non sappiamo ancora, in altri termini, se le forze politiche riusciranno ad affiancare, all'opera dell'esecutivo (concentrata sull'obiettivo primario e vitale di scongiurare il default finanziario, la depressione economica e la dissoluzione sociale del paese), un'altrettanto urgente iniziativa di contrasto all'altra faccia dell'emergenza italiana, quella della crisi di funzionalità delle istituzioni e di legittimazione della politica. Non sappiamo ancora, in definitiva, se al parlamento riuscirà l'impresa di varare un credibile, incisivo, equilibrato pacchetto di riforme: della Costituzione, della legge elettorale, dei regolamenti delle Camere, nonché dello statuto giuridico e del finanziamento pubblico dei partiti. La condizione minima perché ciò avvenga è avere chiaro l'obiettivo, mi si perdoni l'enfasi, «storico-politico» che si persegue. A me pare che questo obiettivo possa essere declinato in questi termini: aprire una nuova fase della vicenda politico-istituzionale della Repubblica. Verrebbe da dire, una «terza fase» della storia repubblicana: dopo la fase (1947-1989) dominata dalla questione comunista e dalla sua difficile e costosa gestione; e dopo la fase (1994-2011) segnata dal berlusconismo e dalla torsione populista e plebiscitaria che esso ha imposto alla democrazia bipolare. La terza fase dovrebbe coincidere con quella che Aldo Moro ebbe a definire «democrazia compiuta», quale va oggi delineando e proponendo, col suo preoccupato, ma instancabile magistero civile, il presidente Napolitano: un sistema equilibrato e maturo, nel quale la competizione tra alternative di governo si accompagni alla solidarietà repubblicana attorno ai fondamentali interessi nazionali e alle linee di lungo periodo della grande politica estera, istituzionale, etico-sociale.Un sistema dunque che non solo non rinneghi, ma anzi esalti lo schema bipolare proprio di ogni vera democrazia competitiva, ma lo radichi non più su coalizioni confuse, o leader tanto invincibili in battaglia, quanto inadatti al governo, ma piuttosto su grandi e radicate forze politiche, capaci della necessaria mediazione tra la società civile, con i suoi valori e i suoi interessi, le sue passioni e le sue pulsioni, e il governo di un paese complesso, esposto ai venti e sottoposto ai vincoli di un mondo sempre più globale. La bozza di riforma costituzionale, attualmente in discussione al Senato, della quale è parte integrante una riforma elettorale che associ i vantaggi del sistema tedesco (collegi uninominali) a quelli dello spagnolo (piccole circoscrizioni), persegue in modo dichiarato questo obiettivo, in sé certamente positivo.E tuttavia, la speranza e l'impegno nel perseguire l'obiettivo storico della democrazia compiuta, non possono non accompagnarsi alla realistica considerazione dei due grandi ostacoli che ad esso si frappongono. Il primo, il più evidente e macroscopico, è la crisi dei partiti, particolarmente accentuata in Italia. Lo scenario del 2008, che aveva visto la rinascita, elettorale e politica, culturale perfino, di due grandi partiti «a vocazione maggioritaria», che insieme avevano raccolto il consenso del 70 per cento degli elettori, sembra dissolto da tempo: oggi Pd e Pdl faticano a tenere il 50 per cento degli elettori, in un contesto per di più di crollo della partecipazione al voto amministrativo e della intenzione di partecipazione al voto politico.ome poggiare su spalle tanto fragili, si obietta da più parti, il rilancio della democrazia parlamentare? È realistico affrontare e risolvere, per questa via, il problema della rappresentatività, mediante il superamento dell'attuale, intollerabile regime di nomina dei parlamentari da parte dei leader, e quello della governabilità, di un governo dotato della legittimazione popolare e degli strumenti istituzionali necessari ad un ambizioso, quanto ineludibile, programma di riforme strutturali del paese?Come ha scritto nei giorni scorsi Sergio Fabbrini, il sistema parlamentare «non può funzionare decentemente senza partiti decenti». E se non vogliamo che la crisi dei partiti trascini con sé le istituzioni, dobbiamo costruire canali di legittimazione diretta delle istituzioni stesse. Come è accaduto coi sindaci. Potremmo dire, come è accaduto con la stessa, nostra Provincia autonoma.Non a caso, la sequenza, solo poche settimane fa, delle elezioni presidenziali francesi, col chiaro mandato popolare a Francois Hollande ha riproposto la questione della crisi del modello parlamentare, ancora oggi prevalente tra le democrazie europee, e ha rilanciato le quotazioni del modello semipresidenziale francese: meglio adatto (sembrerebbe) a garantire il circuito democratico consenso-governo, in una fase di crisi, pressoché generalizzata in Europa, delle grandi forze politiche, assediate dal proliferare di nuove formazioni, variamente anti-sistema. Seguendo il filo di questo ragionamento, la terza fase della vicenda repubblicana potrebbe connotarsi come superamento di una democrazia parlamentare, fondata sul ruolo ordinatore dei grandi partiti, in favore di una democrazia presidenziale che, come insegna proprio il caso francese, può meglio sopperire alla mancanza di un solido e strutturato sistema partitico.Di questo si sta discutendo, proprio in questi giorni, in parlamento e nei partiti.E tuttavia, è proprio la natura della crisi europea della democrazia parlamentare a rappresentare, al tempo stesso, il secondo ostacolo al compimento della transizione politica italiana verso una matura democrazia dell'alternanza, ma anche il possibile passaggio, stretto e impervio, verso una uscita in una fase nuova. Sarebbe infatti un grave errore di analisi leggere la crisi delle democrazie parlamentari europee come la mera risultante di crisi nazionali parallele, ciascuna prodotta prevalentemente, se non esclusivamente, da ragioni endogene ai singoli paesi. In realtà, è sempre più evidente come la crisi delle democrazie parlamentari europee sia anche, se non soprattutto, l'effetto del progressivo slittamento della sovranità dagli stati nazionali verso un'Unione ancora priva di un'effettiva governance democratica. Con la duplice, conseguente delegittimazione dei sistemi politico-democratici nazionali, che dispongono della investitura popolare, ma non più della titolarità delle decisioni; e della stessa governance europea, titolare della maggior parte delle decisioni, in particolare nell'Eurozona, ma priva di un chiaro mandato democratico.L'analisi del problema suggerisce anche la via, come ho già detto, impervia ma obbligata, lungo la quale ricercare la soluzione: che non può che prodursi sul piano europeo, rilanciando con determinazione, se necessario anche privilegiando una cerchia più ristretta di paesi disponibili, il progetto federalista degli Stati Uniti d'Europa. Una Casa Bianca europea, un presidente eletto dai popoli europei, che possa incarnare, sulla base della logica del governo diviso, insieme al parlamento dei popoli e al consiglio degli stati, la nuova sovranità europea.Le recenti, significative aperture della Germania a un rilancio del federalismo europeo, come indispensabile cornice dello stesso, urgente rafforzamento della solidarietà in campo economico tra i paesi dell'Eurozona, fanno sperare che questo possa essere l'esito fausto della gravissima crisi che il progetto europeo sta attraversando.La sfida che ha dunque dinanzi a sé il percorso italiano di riforma delle istituzioni è quella di sconfiggere le paure conservatrici e la presa paralizzante dei veti incrociati, per cercare invece di saldare la nostra terza fase al compimento della evoluzione democratica europea. Pur nella estrema ristrettezza dei tempi (tutto si gioca nelle prossime settimane), non dovrebbe essere impossibile, se solo provassimo sul serio a valorizzare la sinergia tra partiti della maggioranza e governo Monti. Sarebbe anche la strada maestra per rilanciare ruolo e credibilità dei partiti e delle istituzioni.
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