"Imprese, aiuti mirati e Metroland si farà"

Tra i tanti pericoli che la crisi che stiamo attraversando porta con sè vi è anche, e certamente non all'ultimo posto, quello di «perdere il filo del discorso», di frammentare il senso della propria visione politica, di farsi rinchiudere in un percorso obbligato basato sulla prevalenza del pensiero di tipo tecnico-finanziario.
Alberto Pacher, "L'Adige", 16 giugno 2012

Sulla drammatica serietà della crisi che stiamo attraversando è inutile tornare in queste righe, così come mi guarderò bene dall'avventurarmi nella produzione di visioni di scenario. D'altra parte, anche il recente Festival dell'Economia ci ha dimostrato abbastanza chiaramente come se sulla diagnosi di questa malattia dei nostri sistemi finanziari vi è una certa qual convergenza, sulla prognosi e sulla terapia il quadro è certamente più variegato, quando non addirittura piuttosto disorientato sull'individuazione di possibili vie di uscita.
Fatto sta che la cifra che mi pare caratterizzare il momento che stiamo vivendo è, e temo sia destinata a rimanere abbastanza a lungo, quella dell'incertezza. Incertezza sui tempi di questa crisi, ma anche incertezza su «cosa sarà di noi», delle nostre consuetudini, della nostra qualità della vita, della nostra collocazione sociale, del nostro lavoro, della nostra sicurezza sociale. In buona sostanza, del nostro futuro.
Ora, questa incertezza, che attanaglia con diversa intensità l'intera Europa, nel nostro Paese è accuita da una disarmante afonia della politica, dallo scolorare progressivo di un pensiero politico in grado di almeno abbozzare un disegno di futuro. Il governo Monti si affanna nel duplice, lodevole, sforzo di contrastare le manovre speculative che investono anche in nostro Paese, da un lato, e di recuperare il gap funzionale in cui lunghi anni di mancate riforme hanno sprofondato l'Italia, dall'altro. I partiti, dal canto loro, stanno cercando di risolvere alcune delle distorsioni più marcate del sistema della rappresentanza democratica, legge elettorale in primis.
Mi pare che da questo quadro manchi qualcosa, quel qualcosa capace di dare un senso alla fase che stiamo vivendo, anche di dare un senso alle fatiche che stiamo vivendo e a cui saremo chiamati anche in futuro. Manca, appunto, un discorso politico, una proposta di futuro, la definizione di una prospettiva o almeno di qualche linea guida che apra la porta ad una speranza di futuro basata non su un ottimismo di facciata (su questo mi verrebbe da dire che il nostro Paese ha, ahimè, già dato anche troppo in questi ultimi anni) ma sulla fiducia nelle proprie capacità di capire, di vedere e di fare, sulla ragionevole certezza di alcuni fondamentali.
E, come sempre succede, ogni spazio lasciato vuoto dalla politica viene immediatamente riempito da qualcosa d'altro. In momenti come questo, dove manca la proposta prevale quasi sempre la protesta.
Ma veniamo a noi. Il Trentino è, come tutte le altre Regioni, investito in pieno dall'onda della crisi e, come tutte le altre Regioni, partecipa allo sforzo collettivo di risanamento della finanza pubblica nazionale finalizzato a conseguire un duraturo equilibrio del bilancio dello Stato.
Negli ultimi tre anni è andato componendosi un complesso quadro di interventi finalizzati da un lato a ridurre la spesa, soprattutto per quanto riguarda il funzionamento del sistema pubblico provinciale, e dall'altra a sostenere per quanto possibile il sistema produttivo provinciale e quindi l'occupazione.
Nel periodo 2008 - 2012 la spesa corrente, compresi gli interventi anticongiunturali a sostegno del reddito dei singoli e delle famiglie in difficoltà, ha registrato un tasso medio annuo di crescita pari al 2,8 come valore nominale e 1,2 come valore reale.
A titolo comparativo, nel periodo 1998 - 2003 il tasso medio era al 3,5% come valore reale.
Come è noto, è stato definito e avviato un programma di contenimento della spesa dedicata al funzionamento dell'apparato amministrativo pubblico il cui obiettivo è di abbattere del 10% i costi del sistema, conseguendo in tal modo un risparmio di almeno 120 milioni all'anno. Il tutto in un quadro in cui la ricerca dell'equilibrio tra contenimento della spesa e mantenimento dei livelli occupazionali è quanto mai difficile.
E poi gli interventi a sostegno del sistema economico provinciale. Si tratta di interventi conosciuti e di cui si è ampiamente dibattuto in tante sedi, destinati sia a stimolare la domanda privata (incentivi per le ristrutturazioni e il risparmio energetico) che a sostenere sul fronte finanziario e dell'accesso al credito le imprese del territorio.
È chiaro per tutti, credo, che questi interventi non si pongono nell'ottica di mettere al riparo il nostro sistema dagli effetti della crisi: nessuno in Europa si può porre obiettivi di questo livello, al di fuori di - sempre possibili - deliri di onnipotenza. Si trattava e si tratta di cercare di mantenere aperti dei margini di agibilità operativa, di favorire gli sforzi di chi non si arrende, di estendere il tempo dei processi, non fosse altro che per attenuare l'immediatezza degli effetti della crisi (leggi, perdita di posti di lavoro).
Ho letto nei giorni scorsi le preoccupazioni di chi teme che questo insieme di misure abbia accentuato una sorta di dipendenza del nostro sistema produttivo dalla politica (immagino si volesse dire dalle scelte politiche.)
Io francamente non credo, almeno non più del consueto, almeno non più di quanto l'intera economia italiana guardi con estrema attenzione (e forse dipendenza) alle decisioni del Governo in materia di politiche per la crescita. Si badi bene, credo sia innegabile che decenni di sviluppo fortemente incentrato sulla forte presenza, a volte anche «sostitutiva», della politica provinciale come soggetto economico abbiano in qualche caso contribuito a, diciamo così, «intorpidire» alcuni ambiti imprenditoriali.
So bene che è abbastanza diffusa l'idea che questa crisi possa e debba servire a una sorta di selezione «darwinista» all'interno del nostro sistema produttivo. Ora, a parte il fatto che certamente questa crisi porterà e in parte ha già portato di suo a una selezione (che tradotto vuole dire alla chiusura di centinaia di imprese e alla perdita di migliaia di posti di lavoro a livello nazionale), trovo davvero difficile pensare a una sorta di «eutanasia» industriale - o artigianale - a opera dell'Ente Pubblico. Ma davvero qualcuno pensa che, in tempi come questi, gli interventi della Provincia abbiano la possibilità di tenere in vita artificialmente chi in vita da solo non starebbe? Il nostro sistema produttivo è, come tutti, inserito in dinamiche grandi, spesso nazionali e internazionali, e da queste condizionato. Noi possiamo, ed è quello che si è cercato e si cerca di fare, incentivare la ricerca e il trasferimento tecnologico, la stabilizzazione di posti di lavoro, l'apertura di canali per l'inserimento nel lavoro di giovani e donne, di favorire le logiche aggregative. Possiamo anche completare gli interventi per accrescere le potenzialità prestazionali del territorio, quali il completamento della rete in fibra ottica. Possiamo anche, ed è quello che si è fatto e si sta facendo, cercare di rendere più fluide, più certe e più accessibili le procedure per l'accesso ai bandi di gara per gli appalti pubblici.
Sta poi alle imprese, agli imprenditori, mettersi nella condizione di divenire competitivi, di provare a giocare la partita, di scendere in campo. Di cogliere le occasioni, quando ci sono. Nessuno può sostituirsi a loro, alla loro capacità di impresa, alle loro abilità e al loro coraggio. Abilità e coraggio che nessuno può dare, se non ci sono.
Un'ultima osservazione. Io credo che, soprattutto in fasi come questa che stiamo attraversando, alla politica e quindi a noi venga chiesto di non perdere il filo del discorso, di cercare di mantenere in vita una visione di futuro in cui tutto ciò che si fa possa trovare senso e orientamento. Parte di questa visione, pur non senza qualche contraddizione, in questi anni si è articolata attorno a un nuovo modello di sviluppo basato su criteri di sostenibilità diffusa, a partire anche dal tema centrale della mobilità.
Il progetto di infrastrutturazione ferroviaria del Trentino, più noto come Metroland, è esattamente questo, è pensare a un Trentino in cui sia più facile muoversi e lo si possa fare in maniera ambientalmente leggera, attraverso un sistema di trasporto pubblico efficiente e competitivo. È un progetto pensato in maniera modulare, in cui i singoli interventi hanno una propria logica e compiutezza pur rientrando in un disegno d'insieme. In questo senso, l'assunzione di responsabilità diretta nella gestione della ferrovia della Valsugana è Metroland, il prolungamento della Trento Malè verso Mezzana e poi Ossana e la Val di Pejo è Metroland, i miglioramenti previsti sulla linea del Brennero è Metroland.
Anche il collegamento tra la Valle dell'Adige e l'Alto Garda e poi Tione è Metroland, così come il collegamento con e tra le Valli dell'Avisio. È un progetto grande, certamente impegnativo, ma è una visione di futuro a cui non credo si debba rinunciare. Si farà quello che si può e quando si potrà, però sarebbe sbagliato arrendersi. Il realismo e il senso di responsabilità ci impongono di non fare passi avventati, di calibrare con attenzione le nostre azioni. Così come cerchiamo di lavorare per preparare un mondo un pò migliore a chi verrà dopo di noi, cerchiamo di prestare altrettanta attenzione a non lasciare «conti in sospeso», a non caricare le future generazioni di pesi finanziari derivanti da scelte avventate. Per questo si è pensato a un modello modulare, graduale e progressivo, la cui realizzabilità è strettamente legata alle condizioni finanziarie del momento e potrà facilmente essere articolato su tempi e modi compatibili. Per questo credo sarebbe sbagliato archiviare questo progetto in nome del rigore e della sobrietà, in senso astratto.
Abbiamo bisogno di mantenere visibili le linee guida del nostro disegno politico, del modello di sviluppo a cui ci riferiamo, di un Trentino capace di futuro. Senza questo anche il necessario rigore e la necessaria sobrietà diventano tecnica, e noi sappiamo bene che la tecnica deve essere strumento a servizio dell'idea di futuro e non potrà mai - speriamo - sostituirsi a essa.