Imprese sedute? Non è colpa nostra

Sugli interventi della Provincia a sostegno delle imprese, il professor Andreaus ha riempito domenica di considerazioni ed interrogativi un’intera colonna di questo giornale, inserendoli in un ragionamento complessivo sull’economia drogata, da farli apparire poco meno che retorici.
Alessandro Olivi, 12 giugno 2012

Restiamo dunque a disposizione per gli approfondimenti che il professore, da me stimato, annuncia per le prossime settimane, anticipando tuttavia sin d’ora una premessa e tre ordini di valutazioni.
La premessa. Le critiche alla politica economica della Provincia non solo servono ad alimentare una sana dialettica tra le opinioni e conseguenti opzioni operative ma soprattutto non rappresentano per chi scrive l’equivalente di un attacco all’Autonomia. L’importante è non confondere troppo la teoria con la pratica: ben vengano le sollecitazioni dell’accademia ma la politica ha la responsabilità di prendere decisioni muovendosi dentro la trincea delle situazioni concrete non potendo permettersi il lusso di aspettare gli eventi e giudicare ex post. Non mi riferisco al prof. Andreaus in particolare ma vorrei chiedere ai tanti esperti delle teorie economiche che dispensano ricette ogni giorno dove erano quando qualche anno fa l’economia produttiva nel sostanziale silenzio veniva devastata dalle alchimie della finanza speculativa di cui oggi paghiamo le conseguenze?
Ma veniamo ora alle considerazioni nel merito.
Primo. Il recente aumento della disoccupazione, peraltro rilevato da un’indagine campionaria trimestrale, ha colpito tutti, ma non si vede quale relazione ciò possa avere con la manovra anticrisi, se non quella di documentarne la necessità e l’urgenza.
Quella manovra, infatti, è servita soprattutto per abbassare la febbre, non per curare la malattia, come del resto il prof. Andreaus, ha riconosciuto. La febbre era una caduta congiunturale dei fatturati e una diffusa illiquidità del sistema, così forti da mettere a repentaglio la sopravvivenza stessa di molte imprese. L’innovazione, lo spirito imprenditoriale, il modello di sviluppo, se deboli, sono invece la malattia. Le nostre imprese erano (e molte lo sono ancora) a rischio di chiusura, bisognava tenerle in vita, ed indurle a non falcidiare i posti di lavoro. Con una massiccia iniezione di liquidità nel sistema e con incentivi al mantenimento degli occupati abbiamo evitato il disastro e consolidato migliaia di posti di lavoro. Tenere in vita le aziende, con il loro patrimonio occupazionale, era l’obiettivo più urgente, perché con i morti non c’è cura che funzioni.
Del resto, qual’era l’alternativa? Abbandonare le imprese al loro destino, confidando in una rigenerazione purificatrice? O limitarci soltanto ad attendere l’onda lunga di politiche strutturali, capaci di creare aziende superperformanti, impermeabili alla crisi, o di sospingere una moltitudine di giovani verso il rischio d’impresa? Abbiamo creduto nostro dovere, prima di tutto, tutelare al meglio «quei» posti di lavoro, quelli esistenti: non tutti, ahimé, ma comunque migliaia. Il solo incentivo per i progetti di riorganizzazione delle medie e grandi imprese, il c.d. “Fondo Olivi” ha ottenuto impegni occupazionali per 11 mila lavoratori. In mancanza, quanti licenziamenti ci sarebbero stati? E quante imprese avrebbero già chiuso, senza i tremila mutui agevolati di riassetto finanziario? E quante delle 16 (perché solo di sedici si tratta) interessate ad operazioni straordinarie di leaseback, in cambio di un impegno occupazionale di 3.141 unità lavorative per cinque anni? E qualcuno vuol prendere in considerazione gli effetti indotti di quelle misure che hanno sino ad oggi garantito il mantenimento in Trentino di alcuni importanti poli e filiere manifatturiere ossia il ricavo sociale prodotto dagli stipendi che sono stati pagati ai lavoratori?
Seconda considerazione. La Giunta provinciale non ha affatto ignorato che c’è una «malattia» da curare. Fin da subito, infatti, abbiamo miscelato le misure per l’emergenza con quelle a carattere strutturale, cioè per la crescita. La domanda pubblica, ad esempio, specie quella riversata in settori innovativi, come l’ICT, non serve soltanto a «tenere botta», ma anche per rafforzare in prospettiva il tessuto imprenditoriale. Gli incentivi alle imprese, poi - che siano diretti all’investimento, alla ricerca applicata, ai servizi o alle nuove iniziative - tutti hanno geneticamente in sé un immediato beneficio finanziario combinato con un robusto stimolo alla crescita. Perché dovrebbe investire, altrimenti, un’impresa, se non perché sta già guardando al di là della crisi? Ne aiutiamo circa 2.500, ogni anno, ad investire, ma le imprese trentine sono 38.000: perché non vogliamo pensare che siano proprio quelle escluse (anzi, autoescluse, non avendo effettuato spese agevolabili) a perdere occupazione, e proprio quelle che investono a mantenerla, e a darci qualche soddisfazione sul fronte dell’export, che nella stessa fase congiunturale esibisce incrementi «tedeschi»?
Terzo. Non vorrei che, nella legittima preoccupazione per questo difficile momento, fossimo indotti a dimenticare che la nostra è un’economia di mercato. L’azione pubblica é necessariamente di tipo indiretto, cioè non crea direttamente la produzione e il lavoro, se non in parte marginale, ma stimola le imprese a creare l’una e l’altro. La storia insegna che se questo «stimolo» è troppo invadente, il sistema perde mordente e si affloscia: proprio l’effetto lamentato dal professore è storicamente legato ad un eccesso di dirigismo, piuttosto che ad un sistema di interventi, come il nostro, tendenzialmente neutrale e rispettoso delle scelte dell’impresa (purché, s’intende, di qualità). Possiamo discutere se la spinta pubblica debba essere più o meno «gentile», ma tutto fa comunque perno sull’impresa. Non ci sarà sviluppo senza il dinamismo di un sano tessuto imprenditoriale. L’azione pubblica può, alla lunga, contribuire a suscitarlo, ma nel lungo periodo. Se oggi il sistema appare a qualcuno «dormiente», non sono certo gli interventi degli ultimi due anni ad esserne causa. Del resto, anche in questo caso, ripropongo la domanda: qual è l’alternativa? Chiudere il rubinetto dei trasferimenti alle imprese in piena crisi? Mah…
Forse la «droga», in Trentino, ci viene somministrata proprio con la cattiva abitudine di dimenticarci del carattere sussidiario dell’azione pubblica, rispetto al protagonismo delle imprese. La droga è pensare che, se in un trimestre aumenta la disoccupazione, è colpa della Provincia!!
Non è droga, invece, pensare che, se aumenta la disoccupazione nonostante tutto quello che la Provincia ha fatto per evitarlo, una riflessione sia opportuna. Ed è quanto stiamo facendo con le parti sociali muovendo da una convinzione: dalla stagnazione si esce solo creando posti di lavoro e ricchezza, cioè con la crescita, l’unico rimedio anche per risanare le finanze pubbliche, allentare la pressione fiscale e provare davvero a girare pagina.