Lavoro, una riforma controversa

Il mondo del lavoro viene spesso descritto come un fortino, una roccaforte dalla quale nessuno esce e pochi entrano. E' l'immagine, in verità schematica e poco veritiera, dello scontro tra iper- garantiti e precari, scontro che spesso si cerca di dipingere con tonalità da lotta intergenerazionale: i padri super- tutelati e col lavoro comodo, i figli precari e affamati.
Bruno Dorigatti, "L'Adige", 5 aprile 2012

Una fotografia taroccata della realtà, mi sembra evidente: molto più realistica la foto che vede il padre operario cassaintegrato e il figlio interinale in un call center.

Ma anche ammettendo che sia legittimo credere che l'aumento della flessibilità in uscita sia la cura giusta per il mercato del lavoro, resto convinto che non sia per nulla corretto sostenere questa ipotesi mistificando la realtà. Perché la realtà, per l'appunto, è quella descritta ogni anno dalle statistiche dell'Istat: calo degli occupati, progressivo aumento dei disoccupati, in Italia come in Trentino. Siamo in piena recessione, questo è il dato significativo, e i licenziamenti sono all'ordine del giorno: lo sa chiunque abbia anche una flebile percezione di quello che avviene nel mondo del lavoro. E a dimostrazione che è la solidità del sistema economico a garantire buona e stabile occupazione, e non la possibilità di licenziare gli occupati, basterebbe guardare alla Germania: Paese con un sistema di tutele alto, con una presenza sindacale radicata e pervasiva, ma con un'economia fiorente supportata da investimenti privati e da coerenti politiche pubbliche. Credere che sia sufficiente applicare più flessibilità per garantire crescita e occupazione è un sogno non solo irrealizzabile, ma evidentemente irrealizzato: flessibilità, in Italia, se n'è già sperimentata moltissima, da un ventennio a questa parte, e le aziende hanno avuto la possibilità di utilizzare un'infinita gamma di contratti a termine, per ovviare alle loro esigenze di flessibilità organizzativa. Contratti che, oltre a garantire piena elasticità di orari e di organizzazione, costano molto meno del contratto a tempo indeterminato. Il risultato di questo ventennio di precarizzazione lo abbiamo davanti agli occhi: salari e tassi di occupazione tra i più bassi in Europa.

Io spero che Governo e Parlamento ascoltino con più attenzione le richieste del mondo del lavoro, nonché gli accorati appelli venuti addirittura dai vescovi italiani. Su questi temi ho riscontrato con grande piacere il ritorno all'unità di azione dei sindacati, inizialmente divisi: un'unità "dal basso", imposta dalla mobilitazione dei lavoratori, che non può che fare bene a tutto il mondo del lavoro. Presentarsi divisi al tavolo delle trattative, in un clima già difficile come quello che si respira in questa fase, è il modo migliore per uscirne sconfitti su tutta la linea. Credo nel contempo che sia arrivato il momento di rilanciare, di alzare il tiro: se di "modello tedesco" si vuole parlare, di questo modello si cominci ad imitare - in primo luogo- l'architettura che lo tiene in piedi, che si fonda su solide basi di democrazia aziendale. "Mitbestimmung", "co- decisione", ovvero partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, in un'ottica di responsabilizzazione e condivisione delle scelte. Si può uscire dalla crisi con un progetto di rinnovamento della società italiana, o ci si può illudere di uscirne con unilaterali e autoritarie politiche di austerità. Citando Enrico Berlinguer, "quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso": consenso che non è una delega in bianco o un mandato assoluto e privo di vincoli, ma il frutto di un processo senza sosta di confronto tra rappresentanti e rappresentati, tra istituzioni e cittadini, tra politica e società.