E’ vero, se ne parla da tempo. Ma dar vita ad un partito territoriale a ridosso delle elezioni provinciali credo sarebbe un errore. Non solo sul piano della riconoscibilità elettorale (le elezioni sono anche un momento di verifica dell’attività politico-amministrativa svolta nei cinque anni precedenti), ma per una ragione di fondo: i partiti non si costituiscono per vincere le elezioni, ma perché si ha un progetto condiviso sul piano dei valori e delle idee progettuali.Michele Nardelli, "Corriere del Trentino", 10 marzo 2012
Di macchine elettorali prive di visioni in questi ultimi anni ne abbiamo avute abbastanza, dai partiti-azienda a quelli ad personam. Nessuna nostalgia nemmeno per i partiti tradizionali, che pure hanno svolto un ruolo importante nella storia del Novecento, delle cui culture erano figli tanto sul piano delle idee (le magnifiche sorti e progressive), quanto su quello delle forme organizzative (partiti a forma di stato).
Premesso dunque che alle elezioni provinciali del 2013 è bene che i partiti del centrosinistra autonomista trentino si presentino con le proprie soggettività e i propri simboli, la proposta rilanciata recentemente da Lorenzo Dellai di dar vita ad un partito territoriale in grado di proporre una sintesi originale fra le migliori tradizioni di pensiero di questa terra, a me pare di grande interesse per almeno quattro ragioni. Perché le chiavi di lettura della realtà vanno profondamente rinnovate e c’è bisogno di una nuova visione di futuro, perché la dimensione dei problemi è sempre meno nazionale e sempre più sovranazionale e territoriale, perché lo richiede la nuova fase di un’autonomia non è data una volta per tutte ma chiede di essere vissuta e coltivata sul piano della responsabilità individuale e collettiva, perché infine una possibile risposta alla crisi dei partiti è la costruzione di reti politiche territoriali e insieme sovranazionali.
Un pensiero politico da rinnovare
Quelle della coalizione del centrosinistra autonomista trentino sono culture e sensibilità diverse. Ma una storia si è conclusa per tutti e il patrimonio di ciascuno è importante ma non sufficiente ad affrontare un contesto profondamente mutato. Oltrepassato il Novecento, occorre elaborarlo, fare i conti con quel che ha rappresentato, trarne degli insegnamenti per guardare al futuro. Se mi guardo attorno, razzismo, totalitarismo e violenza sembrano rispuntare come facessero parte della natura umana e la paura diviene sempre più un criterio di orientamento politico. Di fronte alla crisi, c’è un diffuso evocare la sobrietà… ma abbiamo forse fatta nostra la cultura del limite? La consapevolezza dello sviluppo demografico del pianeta e del carattere limitato delle risorse dovrebbe indurci a riconsiderare un modello di sviluppo che si dimostra ogni giorno più insostenibile. Invece abbiamo banalizzato il concetto di “sostenibilità” riducendolo a quel che è possibile, anziché declinarlo nella riproducibilità degli ecosistemi, iniziando col darci nuovi parametri sui quali misurare la qualità del vivere.
La cifra del presente
La crisi della politica e della sua credibilità non è solo l’esito della casta. Riflette in primo luogo la difficoltà di comprendere le trasformazioni del nostro presente. A cominciare dalla scala dei problemi, che è sempre meno “nazionale”, ma piuttosto regionale e sovranazionale. Che, tradotto, vuol dire da un lato far crescere la capacità di autogoverno dei territori e, insieme, la necessità di mettersi in connessione con nuove dimensioni geopolitiche. Se il federalismo è l’“ordine delle autonomie”, se l’autonomia è la politica del territorio, il costituirsi di macroregioni alpine e le politiche di prossimità con il Mediterraneo rappresentano un modo diverso di pensare l’Italia ma soprattutto l’Europa.
Autonomia e responsabilità
L’autonomia, lo abbiamo visto nelle ultime “finanziarie”, rappresenta una possibile risposta alla crisi. Non nella chiusura in se stessi a difesa del proprio giardino, ma nella mobilitazione creativa e nell’assunzione diffusa di responsabilità. Dobbiamo dirci con molta onestà che negli ultimi anni l’autonomia è stata invece spesso considerata come un dato consolidato una volta per tutte o, talvolta, come un privilegio che la storia ci ha regalato. La sfida dell’autonomia (e della crisi) si vince con la partecipazione e la rimotivazione delle persone, nella pubblica amministrazione, nei luoghi della formazione, nel privato. Nel farsi carico responsabile, nello spirito di iniziativa, nell’apprendimento permanente, nella capacità di cambiare di ognuno di noi. E, infine, nel formarsi ad ogni livello di una nuova classe dirigente. Senza la quale la sfida dell’“autonomia integrale” per il Trentino si riduce ad uno slogan.
Reti politiche
Questo implica che anche le forme della politica devono essere ripensate. Su questo sono tutti d’accordo ma i rimedi fino ad oggi sono stati peggiori del male. Perdita di legami sociali, crisi dei meccanismi partecipativi, cultura plebiscitaria hanno fatto sì che i partiti diventassero macchine elettorali. Incapaci di dialogo vero con i territori, che tendono invece a sorvolare, preferendo avere terminali elettorali anziché luoghi vivi, capaci di autopensiero. Credo che la riforma della politica non passi tanto dalle regole elettorali, che pure sono da cambiare perché adattate ad un sistema centralista, ma nella capacità di ristrutturare la politica, di immaginare cioè, a Trento come altrove, esperienze politiche territoriali, confederati sul piano nazionale e sovranazionale. Forse così anche i partiti nazionali potranno cambiare.
L’idea di dar vita ad un partito territoriale va presa sul serio. Ma se non vogliamo bruciarla sul nascere, costruiamola senza farci condizionare dalla fretta e dalle scadenze elettorali. Per il 2013 rinsaldiamo i legami dell’attuale maggioranza attraverso un patto politico per l’autonomia integrale del Trentino. E mettiamo in moto una piccola carovana fatta di idee innovative, opportunità formative, esperienze creative. Dando spazio alle eccellenze che, a guardar bene, non mancano in questa terra.
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