Con l'incontro a tre di giovedì scorso a Strasburgo, con Angela Merkel e Mario Monti ospiti di Nicolas Sarkozy, l'Italia è tornata quella che era stata a lungo, da Degasperi in poi: insieme a Francia e Germania, uno dei tre grandi paesi fondatori dell'Europa. Ora, per l'Italia, alle parole devono seguire i fatti.
Giorgio Tonini, "L'Adige", 26 novembre 2011
Sui tre versanti che il nuovo governo ha dichiarato di voler aggredire in modo simultaneo: il debito pubblico troppo alto, la crescita economica troppo bassa, le disuguaglianze sociali insostenibili.
Per ridurre il debito, l'Italia si è impegnata al pareggio di bilancio entro il 2013: dunque non solo non faremo più debiti, ma cominceremo a restituirli anno dopo anno.
Per raggiungere questo risultato, Monti sta preparando un pacchetto di misure forti, con l'unico vincolo (almeno per quanto riguarda il Partito democratico) della equità sociale.
A ciascuno deve essere chiesto un contributo proporzionato alle sue forze e deve pagare di più chi finora ha pagato di meno. Quindi, per fare due esempi, se si tratta di accelerare la riforma delle pensioni portando da subito tutti al sistema contributivo, i primi della lista devono essere i parlamentari. E se si tratta di reintrodurre, per tutti o quasi, l'Ici o altre imposte sulla casa, lo sforzo maggiore deve essere chiesto a chi ha la villa o l'appartamento di lusso e magari la seconda e la terza casa. Ma il rigore finanziario non sarà mai sufficiente se non si rimette in moto la crescita economica. Da troppi anni l'Italia cresce troppo poco, più o meno la metà di quel (poco) che cresce l'Europa. E la bassa crescita è l'altra faccia dell'elevata disuguaglianza sociale.
Siamo il paese con la più bassa produttività del lavoro e i più bassi salari. La minore capacità di attrarre investimenti esteri e il più basso tasso di occupazione, in particolare tra le donne, i giovani e gli ultracinquantenni. La minore innovazione d'impresa e il più duro regime di apartheid tra ipergarantiti e superprecari, questi ultimi concentrati tra i giovani. Davanti ad un quadro come questo, ci si chiede cosa ci sia da difendere dell'attuale configurazione del sistema produttivo e del mercato del lavoro in Italia. Come ama dire Sergio Chiamparino citando Marx, davvero «non abbiamo altro da perdere che le nostre catene».
Non ha nessun senso, proprio nessuno, che il centrosinistra in generale e il Partito democratico in particolare, si impegni a difendere uno status quo come questo: insostenibile sul piano economico e inaccettabile sul piano sociale. Abbiamo bisogno, urgente bisogno, di una grande riforma del mercato del lavoro, che stimoli anche una modernizzazione del nostro sistema produttivo. Una grande riforma come quella che da anni, con una tenacia pari solo alla sua mitezza, propone il giuslavorista, avvocato del lavoro, dal 2008 senatore del Pd, Pietro Ichino, ora spiegata in modo organico e brillante in un libro edito da Mondadori: Inchiesta sul lavoro. Il cuore della proposta di Ichino è noto: abbandonare la trincea ormai inutile della difesa statica del posto di lavoro come tale, a vantaggio di una vera tutela del lavoratore nel mercato del lavoro, accompagnandolo e sostenendolo nel passaggio da vecchi a nuovi lavori. Ichino la chiama flexsecurity, riprendendo il modello scandinavo: flessibilità coniugata con la sicurezza.
Dunque, dice Ichino, tutti a tempo indeterminato e basta contrattini precari, a tutti le protezioni essenziali, ma nessuno inamovibile e a tutti quelli che perdono il posto di lavoro un'indennità crescente con l'anzianità (una mensilità l'anno, come una seconda liquidazione), un sostegno del reddito (90, 80 e 70 per cento dell'ultimo stipendio per i primi tre anni) e assistenza formativa per la ricollocazione. I costi sarebbero sostenuti in parte dalla spesa pubblica (oggi oberata dalla cassa integrazione), ma soprattutto dalle imprese stesse, grazie agli incrementi di produttività generati dalla «flessibilità sicura». A guadagnarci di più sarebbero i lavoratori precari, in particolare giovani, le vere vittime dell'attuale regime di apartheid. Ma in definitiva tutti i lavoratori vedrebbero crescere il loro potere negoziale sul mercato del lavoro e quindi anche dentro l'azienda. Se ne avvantaggerebbero le imprese che vogliono innovare, crescere, internazionalizzarsi. E soprattutto ne trarrebbe beneficio il paese nel suo insieme, grazie a più investimenti dall'estero, a una più efficiente «distruzione creativa», con imprese nuove che sostituiscono quelle obsolete, a un incremento quantitativo e qualitativo dell'occupazione, in definitiva ad un più elevato tasso di crescita della nostra economia. Come quelle di tutti i veri innovatori, le idee di Ichino hanno incontrato e continuano ad incontrare resistenze tenaci, anche nel centrosinistra, nel sindacato, nello stesso Pd. Ieri su «Repubblica» il responsabile economico del partito, Stefano Fassina, ha detto che le idee di Ichino sono sostenute solo dal due per cento del Pd. Se i numeri dati da Fassina fossero veri sarebbe una pessima notizia per il Pd: vorrebbe dire che si è affezionato alle catene che dovrebbe invece spezzare. Ma non sono numeri veri: basti pensare che i disegni di legge proposti da Ichino sono stati firmati dalla maggioranza dei senatori democratici. E che il governo Monti, sostenuto dal Pd, ha messo le linee fondamentali del progetto Ichino al centro del suo programma. Lo stesso programma, grazie al quale l'Italia è potuta tornare tra i grandi d'Europa.