Considerazioni oltre Berlusconi

Vedo in giro un'euforia forse eccessiva intorno all'epilogo dell'era Berlusconi. La sua fine, sia chiaro, l'abbiamo auspicata in molti ed ora che l'uomo di Arcore è costretto a farsi da parte per la propria incapacità di gestire una situazione complessa e che il suo governo ha contribuito a determinare, non si può non tirare un sospiro di sollievo.
Michele Nardelli, 14 novembre 2011

Ma niente di più. Nel senso che il tunnel dal quale uscire è ancora lungo, non solo perché l'eredità che ci lascia è di quelle pesanti, ma perché se Berlusconi ha potuto governare per così tanti anni vuol dire che ha avuto il consenso di un paese che si è andato smarrendo sul piano dei valori e dell'immaginario collettivo. Un'amnesia profonda, fatta di populismo e cattiveria sociale, di spaesamento e di caduta morale.   

Lo dico perché i nodi di un mondo impazzito stanno venendo al pettine uno dopo l'altro senza  che questi destino la necessaria attenzione. Crisi ecologica, crisi finanziaria, crisi politica e morale dovrebbero indurci alla riflessione su quel che stiamo confezionando per le generazioni a venire, eppure ho la sensazione che ci sia una diffusa incapacità di mettere a fuoco gli avvenimenti, preferendo come al solito rincorrere le emergenze quasi che si trattasse di contingenze del tutto casuali.

Eppure quel che accade - non solo in Italia, per la verità - è così grave che non possiamo permetterci uno sguardo distratto, incapace di legare una crisi all'altra, tanto meno pensare che possiamo affrontarle nella logica del "si salvi chi può". Ciò nonostante faticano ad emergere narrazioni all'altezza delle trasformazioni in atto su scala globale ed un progetto culturale e sociale realmente alternativo alle ragioni che hanno fatto precipitare questo nostro tempo (e questo nostro paese) in una crisi forse senza precedenti.

Provo a metterli in fila questi nodi.

1. Sette miliardi di esseri umani

Vorrei partire da un fatto che è scivolato via senza destare particolare attenzione: la notizia che in una delle megalopoli che tratteggiano l'insostenibilità del nostro presente, Manila, è venuta alla luce Danica, il sette miliardesimo essere umano del pianeta Terra. Evento peraltro subito contestato da chi rivendicava altrove tale primato. Quest'ultima contesa ci racconta di come un avvenimento che dovrebbe farci meditare sia stato dai più considerato come un fatto di cronaca che un segnale per molti versi paradigmatico. Che la popolazione della Terra si stia moltiplicando in misura esponenziale tanto da prevedere il raggiungimento dei 9 miliardi di esseri umani nel 2030 (cioè domani) - soglia considerata quale limite sul piano delle potenzialità di approvvigionamento alimentare del pianeta -  non sembra affatto turbare le coscienze anestetizzate dal mito della crescita. Eppure per far posto a ciascuno di questi sette miliardi di cittadini è necessario che tutti facciamo un passo indietro.

2. Il clima è fuori dai gangheri

Piove e fa caldo. In poche ore di intensa pioggia, territori caricati all'inverosimile si trasformano in fiumi di fango e morte, in una lunga sequenza di tragedie annunciate. Che "il clima sia fuori dai gangheri" - per usare la bella espressione di Gianfranco Bettin - e stia cambiando ad una velocità senza precedenti, lo riconoscono tutti ma poi prevalgono l'incuria e l'interesse privato. Ad essere a rischio - oltre al nostro Bel Paese immerso nel dissesto idrogeologico - sono i ghiacciai alpini, i poli che si stanno drammaticamente assottigliando, ma anche molte delle specie viventi se consideriamo che nell'arco di pochi anni il 71% delle specie di farfalle sono scomparse, il 54% delle specie di uccelli, il 28% delle piante. Chissà se Danica non racconterà  ai propri figli una favola che inizierà con un "C'erano una volta le tigri e i leoni..."?

3. L'ossessione

Anziché interrogarsi su dove stiamo portando il pianeta, i fari si puntano paradossalmente sulla vera e propria ossessione di un'economia che non sa immaginarsi senza crescita quantitativa. Ovvero di quello sviluppo senza limiti che della crisi ecologica e dell'impoverimento del pianeta è la causa principale. Il panico è per l'andamento dei mercati, senza nemmeno accorgersi, o fingendo di non accorgersi, che il sistema finanziario globale è da tempo entrato in una spirale perversa, per cui l'economia reale confligge con una finanza che scommette sulla sua stessa crisi, sulla penuria e sui prezzi delle materie prime, sulle guerre che ne vengono, sulla disoccupazione, sull'andamento delle banche e dei titoli di stato emessi per salvarle dalla loro ingordigia speculativa (per questa operazione la Federal Reserve ha stanziato verso le banche statunitensi la modica somma di 16 trilioni - si scrive così 16.000.000.000.000 - di dollari).

4. Un modello che non crea ma distrugge valore

Proprio un modello economico e sociale che non s'interroga sulla propria insostenibilità (fra ricerca del guadagno senza lavoro, corsa ai consumi e proliferazione dei privilegi) ha prodotto un debito pubblico senza precedenti e che pesa come un macigno su ciascuno di noi. Che si è prodotto, contrariamente a quel che si vuol far credere, in una fase ben successiva a quella dell'intervento dello Stato nell'economia. Anzi, per dirla tutta, è balzato alle stelle proprio quando si è teorizzato il contrario, ovvero con gli anni '80 e l'idea che di "politica economica" non si dovesse più sentir parlare. E' stata la finanziarizzazione dell'economia la causa principale della spirale del debito, dovendo sostenere un sistema che produce sempre meno e non valorizza a dovere quello che ha di unico, la terra, l'ambiente, la biodiversità, la cultura.

5. L'onda lunga del pensiero unico

Del resto tutte le manovre che abbiamo conosciuto in questi anni partivano dall'idea che ci si trovava di fronte a crisi congiunturali, che dunque il problema fosse quello di far cassa in attesa di tempi migliori, non di mettere in atto riforme strutturali, come ad esempio la tassazione della rendita per ricondurre la finanza al servizio dell'economia, accanendosi di volta in volta sui redditi da lavoro dipendente, sulle pensioni e sullo stato sociale, oppure sulla finanza locale alla faccia del federalismo. Tant'è vero che anche nell'ultima manovra di bilancio, gli interventi riguardano ancora una volta le pensioni, i tagli alla finanza locale (compreso il non rispetto degli accordi di Milano per le province autonome di Trento e di Bolzano), la privatizzazione delle municipalizzate (quando solo cinque mesi fa con il voto referendario l'Italia si è espressa per la salvaguardia di un bene comune come l'acqua). Scontiamo su questo  una mancata riflessione sulle ragioni della crisi finanziaria globale e, nonostante le evidenti responsabilità di un perverso sistema finanziario nell'averci condotti ad un esito tanto inquietante, prosegue la subalternità al pensiero unico e l'incapacità della politica di governare l'economia.

6. La crisi di visione

Scontiamo in altre parole la terza crisi, quella di una politica priva di visioni alternative. Perché "la fine della storia" (del Novecento e della contrapposizione ideologica che l'ha segnato) non ha prodotto nuovi pensieri bensì la degenerazione di quelli precedenti. La dittatura dei mercati (finanziari), la deregolazione dell'economia e dei rapporti internazionali, lo smarrirsi della cultura della responsabilità e dell'etica nei comportamenti, hanno favorito la nascita di fondamentalismi, di volta in volta fondati sulla "non negoziabilità" di sistemi di vita globalmente insostenibili, sullo "scontro di civiltà" e sulla paura. Ne è venuta una nuova corsa al controllo delle risorse (petrolio, acqua, terra...) e alla militarizzazione dei conflitti che inevitabilmente ne derivano. Ferma agli strumenti interpretativi del secolo passato, svuotata dall'antipolitica e pigra perché condizionata dai privilegi, la politica è diventata preda di un pragmatismo senza idee e di forme degenerative sul piano etico e morale. Dinamiche che riguardano, a ragion del vero, non solo i partiti ma l'insieme dei corpi intermedi e la stessa società civile.

7. Cambiare rotta

Così, anziché guardare la luna, si indica il dito. Dobbiamo dirci con molta onestà che l'ammonimento sui "limiti dello sviluppo" lanciato nell'ormai lontano 1972 dal Club di Roma è stato ampiamente superato dalla realtà. Allora quegli studiosi e scienziati provenienti da ogni parte del mondo vennero tacciati come catastrofisti. Erano realisti, invece, visionari come dovrebbero essere le persone che guardano con responsabilità al futuro piuttosto che al loro consenso. Credo davvero che, in assenza di un più che mai urgente cambio di prospettiva, se continueremo ad essere immersi nel delirio dello sviluppo e non impareremo la cultura del limite, non riusciremo a cambiare rotta.

Ripartire dalla terra (dall'economia vera), investire sul patrimonio straordinario che l'Italia ha sul piano dei beni ambientali e culturali, imparare la bellezza e l'eleganza della sobrietà, ovvero a fare meglio con meno, intrecciare le unicità con la fantasia, la ricerca e l'innovazione, smetterla di buttare miliardi nelle diseconomie delle spese militari, valorizzare i saperi e l'esperienza, piuttosto che la cultura della rottamazione. E guardare al passato con la distanza necessaria all'elaborazione piuttosto che alla rimozione di  ciò che abbiamo prodotto.

Contestualmente all'incarico affidato a Mario Monti per ridare un po' di credibilità a questo paese, mi piacerebbe che la politica sapesse mettere nella propria agenda (e in quella dell'azione governativa) almeno qualcuno di questi nodi di fondo.