TIBET - Torce umane per la libertà

L’hanno vista correre in strada con la tunica in fiamme. Otto minuti di tormento, prima di accasciarsi al suolo, esanime. Otto minuti in cui la donna ha soffocato il dolore delle ustioni inneggiando al Dalai Lama e invocando la fine del dominio cinese. Grida di libertà, non di dolore.
Roberto Pinter, "Trentino", 26 ottobre 2011

Così è morta Tenzin Wangmo, 20 anni, monaca del convento buddista di Mamae Dechen Choekhorling, a Ngaba, nel Sichuan, provincia cinese confinante con il Tibet e abitata da molti cittadini di etnia tibetana. Prima di Tenzin altri otto religiosi si erano immolati per protesta quest’anno nel Sichuan. Tutti, tranne uno, appartenevano al monastero di Kirti. Lei è la prima donna, e proviene dalla sezione femminile della stessa struttura religiosa.

La lunga serie di suicidi inizia il 16 marzo, quando il giovane Lobsang Phuntsok si dà fuoco per richiamare l’attenzione del mondo sul dramma irrisolto del suo popolo oppresso. Il bonzo sceglie non a caso la metà di marzo, in coincidenza con il terzo anniversario delle stragi compiute dalle forze di sicurezza cinesi nel 2008 a Lhasa, capoluogo del Tibet, che era allora in preda alla rivolta popolare.

L’esempio di Lobsang è imitato da altri compagni di fede e Kirti diventa il centro di una campagna di lotta in cui la violenza rivolta contro se stessi è il modo estremo per testimoniare la situazione di impotenza in cui versa il movimento  tibetano in Cina.

Pechino ha mandato nella regione decine di migliaia di soldati e poliziotti. I conventi sono presidiati dagli uomini in uniforme. Ma la febbre del sacrificio non si placa, e solo nel mese di ottobre si è già al quinto episodio. Solo quattro monaci sono sopravvissuti al tentativo di suicidio, ma versano in gravi condizioni.

È proprio di oggi la notizia un altro monaco è dato fuoco alle 9.30, ora locale, durante l’esecuzione di una cerimonia di danze rituali all’interno dell’istituto religioso. Più tardi si è appreso che, già avvolto dalle fiamme, Dawa chiedeva il ritorno del Dalai Lama dall’esilio e la riunificazione del popolo tibetano.

Deve essere disperata la situazione per decidere di bruciarsi vivi. Non è una tradizione tibetana fare i bonzi, è un gesto estremo, non per richiamare l'attenzione poiché non viene cercato il pubblico ma per gridare la sofferenza per una libertà che non c'è, per una religione repressa, per un popolo umiliato.

Monaci che muoiono tra atroci sofferenze chiedendo il ritorno del Dalai Lama in Tibet e la fine della occupazione cinese.

Prima delle Olimpiadi tutti i mass media parlavano delle proteste dei monaci a Lhasa, oggi stentano queste notizie a passare dalle maglie del controllo cinese e a superare la distrazione.

Ognuno di noi sensibili alla causa tibetana e vicini al popolo tibetano e al Dalai Lama deve esprimere la propria umana e politica solidarietà. Non passiamo sotto silenzio il sacrificio dei monaci e soprattutto non passiamo sotto silenzio ciò che ha originato quel sacrificio, vale a dire la lunga e brutale repressione da parte del governo cinese che continua da più di cinquant’anni ad occupare militarmente il Tibet.

Il 2 novembre ci sarà una manifestazione a Roma per esprimere il cordoglio per le vittime, la solidarietà per chi sta soffrendo e lo sdegno per la feroce repressione cinese e per ricordare al Governo Italiano che non c'è solo il mercato cinese di cui preoccuparsi ma anche la libertà dei cinesi e di tutte le minoranze.