La relazione del segretario Pier Luigi Bersani alla Direzione nazionale.
"Mi atterrò strettamente al tema di questa nostra riunione di Direzione perché vorrei che la discussione si concentrasse sull’oggetto che abbiamo messo all’ordine del giorno e che può essere sintetizzato così: come miglioriamo noi stessi e il funzionamento della nostra vita associativa."
Avevo detto nell’ultima Direzione che avremmo lavorato per investire in diverse direzioni sui risultati che abbiamo ottenuto. Una di queste è senz’altro il partito: l’esigenza di migliorare noi stessi esiste e problemi da risolvere ne abbiamo ancora.
È chiaro – lo dico subito – che migliorare noi stessi vuol dire, prima di tutto, migliorare la nostra politica, il nostro progetto, la nostra proposta nel confronto con i problemi del Paese. E vuol dire creare nel vivo di questo confronto quel nucleo di condivisione e di lealtà reciproca che è la sostanza vera della vita di un’associazione.
Ma certamente esistono anche i problemi – su questo adesso ci concentriamo – che riguardano la struttura della vita associativa e che presentano aspetti che ci suggeriscono una riflessione e un intervento.
Vorrei anzitutto chiarire la proposta che avanzo a proposito del percorso, ossia che cosa intendo quando parlo di conferenza sul partito. Leviamoci dalla testa i modelli tradizionali: non è un paracongresso, né una conferenza con i delegati, né altre cose simili.
Propongo invece un percorso aperto di discussione. Un percorso che parte con la discussione di oggi. Entro una settimana allestiremo un sito dedicato a questa Conferenza, che avrà diverse sezioni, una delle quali sarà costituita dai contributi dei membri della Direzione, i quali potranno scegliere se pubblicare l’intervento di oggi o piuttosto inviare un contributo scritto.
Dopo la Direzione di oggi, ci sarà poi nei prossimi giorni un incontro con i segretari regionali. In questa fase, a partire dalla mia relazione introduttiva e dai contributi dei membri della Direzione, si mette in moto, attraverso il coinvolgimento attivo delle Unioni regionali, una discussione che avrà diversi canali: i circoli, il sito online (sul quale militanti, simpatizzanti, critici e tutti quelli che vorranno intervenire potranno far pervenire il loro contributo), le feste democratiche durante l’estate, nelle quali ci saranno finestre dedicate alla discussione sul tema del partito.
Il ritorno di questa discussione avverrà attraverso una selezione ragionata che verrà fatta dagli organismi regionali e dalla segreteria nazionale, per poi tornare nella Direzione, che formulerà una proposta di indirizzo per l’Assemblea, la quale sarà chiamata a varare eventuali modifiche statutarie o, comunque, a fare un punto finale.
Vedremo come questo percorso si affiancherà all’altro percorso che abbiamo in moto, che è quello sul progetto. L’obiettivo è quello di chiudere per ottobre-novembre. Questo è l’essenziale riguardo la proposta del metodo e del percorso.
Il Pd e la democrazia italiana
In questo avvio di discussione indicherò alcuni nodi problematici che dobbiamo sciogliere, e suggerirò anche l’indirizzo con il quale affrontarli. È chiaro che altri temi si presenteranno lungo il percorso, perché qui non farò l’elenco di tutti i problemi. Immagino anzi che la discussione segnalerà altri problemi e questioni da affrontare. Intendiamo discutere in forma aperta anche per questa ragione.
Il punto fondamentale che qui voglio rimarcare (anche se non vi dedicherò molte parole perché ne abbiamo parlato altre volte) è quello da cui prendiamo le mosse in questa discussione e che deve essere chiaro a tutti quelli che vi parteciperanno: noi stiamo parlando della democrazia italiana.
In altre parole, il tema che noi svolgiamo ha un titolo preciso: che cosa si fa dopo Berlusconi, dopo l’ubriacatura populista e personalista di questa povera democrazia italiana. L’orizzonte è costituito, quindi, dal progetto di ricostruzione, dall’insieme di riforme che devono riconsegnarci una democrazia rappresentativa riformata. Dobbiamo ripartire da qui, ne abbiamo parlato altre volte, perché la premessa di questa Conferenza, a cominciare appunto da come la impostiamo, è assolutamente questa.
È in questo quadro di ricostruzione democratica del Paese che noi solleviamo una discussione sui partiti e, quindi, sul nostro partito.
Noi dobbiamo sempre ricordare che abbiamo scelto di chiamarci Partito Democratico: in queste due parole – forse non ci avevamo pensato fino in fondo – c’è un radicale programma per l’Italia. Non c’è nessun altra forza politica che si chiama partito e in Italia la democrazia incontra problemi particolari.
Certo, la democrazia rappresentativa è in una fase di difficoltà in tutto il mondo, perché, da un lato, i canali di partecipazione e di decisione non sono in grado di affrontare i temi nuovi che hanno una dimensione sovranazionale, dall’altro, ci sono esigenze di protagonismo diretto di movimenti e di singole istanze della società, che non accettano di essere mediate oltre un certo limite.
Tuttavia, nessuna democrazia matura nel mondo ha rinunciato a una funzione dei partiti, in nessun modo e da nessuna parte questa esigenza di protagonismo diretto della società civile è diventata la strada per negare alla radice la funzione delle forze politiche.
Noi sappiamo di avere avuto alle spalle una particolare vicenda italiana, ne abbiamo parlato tante volte. Non proponiamo peraltro riedizioni di esperienze passate: sappiamo che per uscire dal populismo non basta dire “democrazia rappresentativa”, bisogna dire “riforma della democrazia rappresentativa”, ribadendo i temi sui quali da tempo siamo impegnati. E, lo ripeto, tra questi temi c’è anche uno importante che riguarda i partiti.
Spero, ad esempio, che si riconoscerà che si sta poco a poco verificando quello che avevamo intuito: nello zoppicare ormai evidente di Berlusconi e della sua area di maggioranza è visibile la confusa ricerca di un modo per affrontare il problema, recuperando una qualche forma-partito. Vedremo cosa faranno.
Non può sfuggirci che in tutto il sistema politico italiano ha prevalso una piegatura personalistica delle formazioni politiche, che, anche per ragioni naturali, non potrà essere eterna. Il tema del rapporto tra leadership e collettivo è quindi il tema di domani.
Se è così, pur con tutti i nostri problemi, abbiamo tre anni di vantaggio sugli altri. Le esperienze buone o cattive che abbiamo fatto ci mettono su questo tema in pole position. Bisogna allora che noi utilizziamo al meglio questo vantaggio, che correggiamo rapidamente i difetti e che così, avendo risolto un certo numero di questioni aperte, ci attrezziamo meglio a svolgere il ruolo di primo partito di questo Paese.
Questo deve essere l’orizzonte dell’impegno che affrontiamo con la Conferenza...
Che cosa intendo quando parlo di un moderno partito popolare e riformatore? Intendo un partito di iscritti ed elettori, nazionale e autonomistico, unito e plurale, laico ma non agnostico eticamente e culturalmente.
Un partito che, da un lato, riafferma con orgoglio l’autonomia e l’essenzialità della politica, dall’altro, ne riconosce i limiti.
Un partito che mette insieme orgoglio e umiltà, che sa riconoscere i confini della sua azione e si pone perciò il problema di avere strutturalmente un rapporto aperto con la società, un rapporto cioè di affiancamento e collaborazione con movimenti democratici e civici, che pretendono politicità senza per questo pretendere di sostituirsi alla politica.
Questo è il tema di domani, perché queste autonome soggettività di cui parliamo vanno naturalmente condotte a non sfociare nell’anti-politica, ma resteranno un dato strutturale della società di domani. Non possiamo pensare che siano fenomeni passeggeri. Attraverso strumenti di formazione, di informazione e anche con l’ausilio della rete bisogna quindi trovare un modo per rilegittimare la politica, affiancandola a istanze e movimenti che sono ugualmente legittimi, ma che riconoscono l’esigenza di una funzione unificante, che è quella della politica.
Se riusciamo a rappresentare la funzione del partito così, possiamo dirci un’altra cosa politicamente impegnativa. Abbiamo tre anni e mezzo di vita. Lavorando così, possiamo costruire un racconto condiviso: dove siamo arrivati è il risultato del lavoro di tutti, è il frutto dell’aiuto e del contributo di tutti.
La grande avventura del Pd dovrà essere narrata in una evoluzione positiva, nella quale tutti hanno dato una mano. Dobbiamo consegnare al futuro una storia condivisa della vicenda di questi anni.
Proprio per questo non intendo in nessun modo che questa discussione sia inficiata o disturbata da preoccupazioni d’area o di corrente. Qui siamo nella nostra ditta, nella quale si parla con libertà e senso di responsabilità. Ognuno dà il suo contributo e alla fine insieme tireremo le somme.
Un partito di iscritti e di elettori
Veniamo a qualche tema specifico, sapendo che ne indicherò alcuni ma non tutti. Per capire cosa intendo quando parlo di partito di iscritti e di elettori, propongo di lasciarci alle spalle la discussione partito leggero-partito pesante. Il partito deve garantire di poter svolgere alcune funzioni essenziali, che sono quelle che ne giustificano l’esistenza.
Deve quindi essere attrezzato ad ascoltare e a confrontarsi con le istanze della società, deve essere capace di un’elaborazione autonoma (deve cioè darsi dei canali propri di elaborazione culturale e politica), deve avere un’organizzazione adeguata a rendere praticabile e veicolabile la sua visione e il suo progetto, deve infine garantire formazione e selezione dei gruppi dirigenti. Queste sono le funzioni necessarie ed indispensabili, che vanno svolte con il massimo grado di leggerezza e di essenzialità.
Ci vuole un minimo di robustezza politico-organizzativa, che non contrasta affatto con l’apertura all’esterno, anzi ne è la condizione. Non penso al partito dei funzionari, ma a una formazione che abbia una stabilità strutturale e garantisca alcune professionalità specialistiche, ad esempio nel settore organizzazione e comunicazione, con figure che, anche al livello territorialmente adeguato, siano in grado di garantire continuativamente rapporti e iniziative verso l’esterno.
Per le funzioni politiche, noi non vogliamo essere un partito di funzionari. Quando necessario e utile, si devono trovare per i ruoli politici forme di collaborazione che abbiano carattere di flessibilità e fluidità.
In un partito così la sovranità appartiene agli iscritti che, a mio giudizio, in diverse essenziali e importanti occasioni, o per via statutaria o per via di decisione politica, la rimettono agli elettori.
Ci sono materie e circostanze in cui il riconoscimento del ruolo degli iscritti è imprescindibile. Si pensi all’elezione degli organismi dirigenti territoriali. O a scelte fondamentali di orientamento politico-programmatico, su cui è giusto valorizzare uno strumento come il referendum degli iscritti. Questa esigenza l’abbiamo enunciata varie volte, ma non l’abbiamo mai praticata.
Per esempio, potremmo sperimentarla alla fine di questo percorso della Conferenza sulle eventuali modifiche statutarie, chiamando gli iscritti a pronunciarsi con un referendum.
Oppure si pensi alle nuove tecnologie. Potremmo, per esempio, studiare di collegare l’iscrizione al partito all’attribuzione di un codice personalizzato di accesso a una rete di consultazione del partito, che possa aiutarci a sperimentare anche nuove forme di democrazia telematica.
Ci sono invece occasioni in cui è opportuno e necessario che gli iscritti, nella nuova logica di un partito che ho cercato di descrivere, trasferiscano la sovranità a una platea più vasta, costituita dagli elettori del partito che accettano di dichiararsi e registrarsi come tali.
Sapete quanto complesso sia il tema della registrazione, che può essere fatta in modo flessibile o più rigido. Anche di questo dovremo discutere, ma il tema c’è. Il trasferimento della sovranità agli elettori è necessario nel caso della scelta dei candidati per i vertici istituzionali.
È una scelta che, per le nostre responsabilità e le nostre dimensioni, non riguarda solo il partito, ma investe le prospettive delle comunità locali. Le primarie sono fondamentali e preziose. Nella normalità dei casi, le primarie si sono rivelate in grado di raccogliere e mobilitare attorno al PD e alla coalizione anche energie esterne ai partiti.
Mettiamo fine a questa discussione che a volte ritorna: noi abbiamo il copyright nazionale ed europeo di questo strumento, non ce lo faremo portar via da nessuno!
Questo intendo quando dico di mettere in sicurezza le primarie: attenzione, uno strumento così prezioso non può essere contraddetto nelle sue finalità.
Noi abbiamo sperimentato che le primarie si sono rivelate preziosissime quando sono state interpretate come una risorsa della politica, sono state meno preziose (uso un eufemismo) quando sono state concepire come una sorta di vincolo regolamentare da brandire nello scontro interno.
In questi casi vi è stato un automatismo burocratico, che ha portato all’utilizzazione delle primarie solo per fini di parte.
Dobbiamo perciò valutare quale sia lo spazio politico necessario per individuare i casi in cui non ci siano le condizioni per il ricorso a questo strumento. Lascio aperta la discussione su questo punto, ponendo il problema e legandolo a un aspetto su cui voglio invece dire una cosa più precisa. È chiaro che in questo meccanismo possono esserci talora elementi negativi o qualche volta perfino patologici; il punto è che quando noi ci roviniamo da soli applicando male il meccanismo, roviniamo anche la coalizione.
Quando parlo di responsabilità, non lo faccio solo per noi: se noi perdiamo un Comune perché abbiamo impostato male le scelte, perdiamo un comune per tutto il centrosinistra e vince la destra!
Penso che la scelta di spostare l’asse delle primarie verso la coalizione si sia dimostrata giusta e vincente. Adesso abbiamo il problema di individuare regole democratiche che impediscano di trasformare, come in qualche caso è avvenuto, le primarie di coalizione per i vertici istituzionali locali in una resa dei conti interna al Pd.
Pongo il tema di meccanismi che favoriscano, magari senza imporla rigidamente, l’univocità della presenza del PD nelle primarie di coalizione. Valutiamo di alzare la soglia di presentazione delle candidature espressione del partito, oppure di individuare dei meccanismi di deroga a rispetto alla regola di un solo candidato del PD nelle primarie di coalizione.
Chiedo un aiuto per trovare una soluzione su questo tema, perché questo, all’atto pratico, si è rivelato il punto si cui si è innestato il problema di cui dicevo, cioè lo svilimento delle primarie in una diatriba interna. Per questa ragione chiedo che sul punto la discussione indichi una soluzione.
Ribadisco che, a mio giudizio, l’apertura agli elettori è una risorsa da salvaguardare anche per l’elezione del segretario nazionale del Partito Democratico. Sia per la sua funzione di rappresentanza generale che per la sua esposizione esterna, è una responsabilità che non può essere intesa come rivolta solo al corpo degli iscritti, perché poi vive quotidianamente sotto i riflettori di una battaglia che coinvolge l’opinione pubblica nazionale, e perché può avere dei tratti unificanti in un Paese che di questo ha assolutamente bisogno.
Per quel che riguarda la selezione dei candidati al Parlamento, noi abbiamo un nostro progetto di riforma elettorale. C’è in corso un’iniziativa referendaria, di cui troveremo il modo di discutere, ma è chiaro che noi abbiamo la nostra proposta. Possiamo dire che tutto ciò che mette in discussione il Porcellum e apre uno spazio per una discussione parlamentare di riforma può essere utile, ma noi abbiamo la nostra proposta.
In presenza del Porcellum, noi siamo di fronte a una questione che è emersa in maniera assolutamente evidente negli ultimi mesi. C’è una spinta enorme alla partecipazione - i referendum, le amministrative, la piazza di Milano – e ci troviamo di fronte all’imbuto di una legge elettorale che costringe alla nomina dei parlamentari.
Questa legge è talmente in contropelo rispetto alle esigenze di partecipazione, che qui davvero può profilarsi una situazione dove rischia di “piovere per tutti”. Quindi noi dobbiamo affrontare il tema, tenendo presenti le implicazioni di ciò che facciamo. Stiamo parlando della composizione di gruppi parlamentari che devono garantire la rappresentanza di genere, i territori, il pluralismo, le competenze e l’apertura all’esterno. Noi dobbiamo ribadire e combinare queste esigenze, per inserirle però in un quadro di partecipazione.
Mi limito a dire che, nel caso in cui rimanga in vigore questa legge elettorale, noi dovremo trovare delle forme che tengano conto anche delle diverse articolazioni territoriali. Ad esempio, abbiamo le Unioni regionali di cui avvalerci. Noi possiamo quindi dare dei criteri di indirizzo, secondo uno schema per cui una parte fondamentale delle scelte vengono rimesse agli iscritti, senza escludere (in particolare per quelle regioni che siano in grado di farlo) iniziative di ulteriore ampliamento dei meccanismi di partecipazione.
Non scendo ulteriormente nei dettagli, limitandomi dunque a un indirizzo che garantisca la partecipazione a partire dagli iscritti (senza escludere forme più larghe laddove a livello regionale le condizioni politiche e regolamentari lo consentano) e che assicuri quegli elementi di unitarietà imprescindibili per i gruppi parlamentari.
Un partito nazionale e autonomista
Il secondo grande tema è costituito, a mio giudizio, dalla dimensione nazionale e autonomista del partito. Noi abbiamo una certa idea dell’Italia, siamo patrioti e autonomisti, e abbiamo una certa idea di federalismo, fondata sulla nostra cultura. La nostra cultura dell’autonomismo è una risorsa preziosissima se collegata alla nostra vocazione patriottica. Come partito federale, noi abbiamo cominciato negli ultimi anni a dare più risorse e strumenti alle organizzazioni territoriali. Siamo convintissimi che un partito non si rimette in piedi puntando solo sul trascinamento dei leader o sulle campagne nazionali.
Per questo dobbiamo rafforzare l’autonoma responsabilità economica, organizzativa e politica dei nostri livelli territoriali.
Qui c’è il punto di come questa rappresentanza territoriale trovi diretta espressione negli organi dirigenti nazionali. Propongo con grande convinzione il principio per cui una quota consistente – io direi fino alla metà – degli organismi ad ogni livello (nazionale, regionale e provinciale) debba essere espressa direttamente dalle organizzazioni dell’ambito territoriale sottostante.
Questo perché tale meccanismo di rafforzamento delle rappresentanze locali ancora il dibattito politico alla concretezza del radicamento territoriale, corresponsabilizza i territori nella dimensione nazionale, diventa una leva di promozione e di selezione di quadri validi che, se rimangono chiusi in una dimensione localistica, non possono alzare lo sguardo. Partecipare al lavoro di direzione a un livello più ampio è un elemento formativo per eccellenza.
L’applicazione di questo principio può inoltre essere un meccanismo correttivo (non risolutivo, ma correttivo sì) dell’eccesso di verticalizzazione correntizia, perché, in fin dei conti, se un circolo deve mandare qualcuno alla direzione provinciale, mediamente sceglie il giovane che ha voglia di andarci e che è ritenuto capace.
Se la decisione la prendiamo da Roma, non è detto che sia così. Su questo sono interessato a discutere seriamente, è un punto essenziale. È chiaro che non si risolvono le cose dall’oggi al domani, ma si può mettere in moto un processo di cambiamento positivo.
Vi è poi il tema del rapporto tra partito e amministratori locali. Abbiamo approvato recentemente il regolamento per la buona condotta degli amministratori locali. È uno strumento importante, perché consente di dire all’amministratore locale: «Rispondi ai cittadini, però sei nel PD. Noi rispettiamo la tua autonomia e non ci interessa dirti chi sono gli assessori, per noi le regole essenziali sono correttezza, trasparenza, rigore».
Riguardo l’aspetto politico, il problema è come, nelle condizioni date, si garantisce l’autonomia degli amministratori e insieme si valorizza il patrimonio di affidabilità e di fiducia che tanti di loro esprimono e che li rende una risorsa fondamentale.
Ribadita l’autonomia dei vertici istituzionali rispetto alle scelte gestionali, occorre una comunicazione più stretta nell’indirizzo politico e amministrativo per uscire dall’eterno dilemma: il partito si lamenta del disinteresse del sindaco e il sindaco del fatto che nessuno gli dia una mano. È una storia antica, non nasce certo oggi. Qui bisogna dire agli amministratori: noi non entriamo nelle vicende gestionali, però una volta l’anno (arriverei a prevederlo anche statutariamente) si tiene una conferenza programmatica organizzata dal partito sulle prospettive amministrative.
Può essere questo o un altro meccanismo, ma cerchiamo di trovare una soluzione. Inoltre, il meccanismo di cui ho detto, che prevede organismi costruiti per una buona parte su base territoriale, può essere anche il veicolo per mettere di più alla prova della direzione politica esperienze amministrative. Mi pare che anche questo possa essere utile.
Se noi costruiamo un’architettura del partito a forte base territoriale, possiamo tranquillizzare su un altro punto cardine, ossia sulla necessità di rafforzare le funzioni centrali del partito. Se davvero vogliamo il partito federale, dobbiamo farlo con funzioni centrali che siano adeguate. In nome di che cosa? Della proprietà indivisa, ossia del marchio, della ditta, che, se viene danneggiata in un luogo, viene danneggiata dappertutto.
Se costruiamo degli organismi nazionali nei quali ci sia anche la presenza forte dei territori, lì si possono condividere anche decisioni di intervento che siano più incisive di quelle che abbiamo oggi. Naturalmente mi riferisco a casi-limite, come quelli che possono riguardare il mancato rispetto del Codice etico (che deve essere invece sempre esigibile), questioni programmatiche dirimenti, o anche questioni di candidature e alleanze che possono mettere in discussione la credibilità di fondo del partito.
In queste circostanze, credo che bisogna prevedere per gli organi nazionali la possibilità di intervenire e anche, nei casi-limite, di avocare la decisione ultima.
A proposito dell’autonomia dei livelli territoriali, bisogna affrontare il tema della modalità di elezione dei segretari regionali, che intendo rimettere alla discussione.
Abbiamo avuto l’esperienza dell’agganciamento dell’elezione dei segretari regionali al meccanismo delle primarie per il segretario nazionale. Questa soluzione a me non pare coerente, in quanto stride con l’impostazione per la quale i livelli territoriali devono avere la possibilità di un confronto politico autonomo.
I livelli regionali sono rimasti schiacciati: un po’ di filiere verticali, un po’ di sostegno di liste locali, il tutto dentro una discussione molto nazionale. Proporrei lo sganciamento temporale dei congressi regionali rispetto alle primarie per il segretario nazionale.
A questo punto si pone però un altro problema: finché c’è l’aggancio alla dimensione nazionale, si può pensare di fare le primarie per il segretario regionale, ma, se non è così, comincia a essere più complicato, in quanto diventa concreto il rischio di una burocratizzazione delle primarie. Discutiamone comunque: a mio giudizio, il punto di fondo è se scollegare il percorso regionale da quello nazionale. Se si propende per questa ipotesi, a me pare più logico restituire agli iscritti la scelta del segretario regionale.
Un partito plurale e unitario
Ho detto in più occasioni che non vogliamo un partito con stanze o appartamenti separati, ma che la ricetta che prepariamo deve comunque lasciar trapelare gli ingredienti diversi, ossia i diversi filoni e le differenti sensibilità. Ho accennato prima che un diverso rapporto tra centro e territori può contribuire a evitare la piegatura delle aree culturali verso esiti correntizi verticali.
Dobbiamo incoraggiare la fisionomia politico-culturale delle aree, facendo di questo un asse del partito. Discutiamone quindi, io guardo con un certo favore quando le aree promuovono iniziative culturali, di approfondimento e di ricerca.
Mi pongo e pongo il problema, se questa è la dimensione e la prospettiva, di verificare come poi il partito si attrezza per una sintesi utile di questi apporti culturali. Tra le funzioni strutturali di un partito a livello nazionale (e probabilmente non solo a questo livello) c’è quella di un ufficio studi o di qualcosa di analogo, nel quale nel rapporto con tutte queste varie realtà si riconfigurano anche punti di sintesi, temi di relazione, specializzazioni nell’approfondimento dei temi.
Dall’altro lato, io rafforzerei la dimensione e il ruolo dei territori, man mano che cambiano i protagonisti e si impongono le nuove generazioni, alle quali non possiamo certo consegnare gli schemi di una volta. Dobbiamo incoraggiare largamente processo di de-verticalizzazione. Le correnti verticali non sono l’architettura del partito del futuro.
Una volta che ci siamo intesi su questo, il pluralismo culturale deve essere difeso e valorizzato, perché è la nostra ricchezza. Vorrei che, nel corso della nostra discussione, approfondissimo la ricerca di questo punto di equilibrio: come rafforzare il profilo politico-culturale del pluralismo, evitando la verticalizzazione correntizia.
Questo è necessario anche perché ho in testa un partito -l’ho anticipato prima- laico ma non agnostico sui temi etici, sui grandi temi culturali, sulle nuove frontiere delle scelte etico-morali. Qui si colloca il tema di come ci accostiamo a temi nuovi e delicati. Ribadisco che noi dobbiamo riconoscere il diritto all’appello alla coscienza come elemento irrinunciabile, che deve però essere collocato a valle di un processo di discussione, di affidamento reciproco, che muove dalla consapevolezza che tutti noi siamo nel partito per prendere decisioni in nome del bene comune. Questo ci vincola a ragionare, anche quanto proponiamo leggi, considerando la coscienza di tutti.
Ritengo quindi che (se ne parla sempre per questi casi, ma non riguarda solo questi casi) che i gruppi parlamentari e consiliari del partito debbano darsi regole di solidarietà e di disciplina interna: non esiste per nessuno il vincolo di mandato, e tuttavia l’appartenenza a un gruppo è una scelta, che presuppone l’accettazione di regole condivise.
Queste regole devono naturalmente prevedere la possibilità del voto di coscienza, ma inserendolo in un quadro di valorizzazione della ricerca comune delle soluzioni ed evitando che l’appello al voto di coscienza sia banalizzato. Non entro nei particolari, ma le forme possono essere trovate.
L’importante è che abbiamo chiaro il punto politico fondamentale. Quando dico che non siamo agnostici, intendo che dobbiamo sempre ricordare che il centrosinistra non è il centrodestra, il che significa non possiamo rappresentare il nostro mondo mettendoci nel relativismo più totale riguardo i temi cruciali.
Abbiamo su questi temi un’altra pelle, più sottile. La nostra gente è diversa, chiede sempre un forte riferimento di senso e di valore. Noi dobbiamo trovare il modo di mettere in valore la ricchezza e la forza di convinzioni etiche e religiose, per trovare poi una nostra piattaforma di cultura politica, naturalmente praticando l’autonomia della politica. Autonomia significa che la politica deve mettersi nella condizione di poter decidere per tutti, rivendicano il suo ruolo di mediazione tra principi e norme.
L'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione e i costi della politica
Nel nostro percorso, affrontando il tema della trasparenza e dei costi della politica, non possiamo eludere la questione di una legge di attuazione dell’art. 49 della Costituzione. Capisco le controindicazioni, il rischio di fossilizzare e irrigidire la vita interna dei partiti. Ma se vogliamo dire più chiaramente che per noi la necessità dei partiti non significa il ritorno ai difetti dei vecchi partiti, credo che l’attuazione dell’art. 49 ci dia una bella occasione.
Ci sono già proposte in Parlamento, discutiamone a partire dal principio che un partito, per assolvere la funzione costituzionale, deve garantire trasparenza e meccanismi democratici di partecipazione. In questo quadro, possiamo vedere che cosa significa ribadire una posizione forte sul tema dei costi della politica. Facciamo attenzione su questo, perché ovunque si discute dei costi della politica e noi abbiamo il dovere di mettere un argine a una possibile deriva verso l’antipolitica e la plutocrazia.
La mia proposta è di individuare una soglia europea, verificando, ad esempio, quanto si spenda in Germania o in Francia per i partiti, per i parlamentari e quali siano gli istituti che non coincidono (ad esempio, i vitalizi da abolire). Non accettiamo derive di antipolitica, attestiamoci su una posizione e combattiamo, rivendicando però criteri di sobrietà. Non ci sono solo le questioni che riguardano la pubblica amministrazione, le riforme istituzionali e la riduzione del numero dei parlamentari.
Abbiamo certo altri aspetti da considerare: i superstipendi dei manager, la fiscalità a carico delle imprese che danno buonuscite esagerate e altro ancora. Detto questo, non possiamo non guardare ciò che riguarda direttamente la politica.
Questa impostazione deve coinvolgerci tutti, PD nazionale e livelli regionali, perché noi abbiamo un problema specifico che riguarda proprio la dimensione regionale. È una questione seria, bisogna che ci impegniamo a fondo su questo. Anche in quest’ottica, occorre garantire che il partito in quanto tale abbia una sua autonomia gestionale e organizzativa rispetto a funzioni istituzionali che hanno accumulato, nel corso di varie legislazioni, un potere di apparati e di risorse che alla fine sbilancia qualsiasi equilibrio. Non va bene, questa situazione non è salutare per nessuno, né per le funzioni istituzionali, né per il partito.
Procediamo quindi con determinazione e senza cadere nell’antipolitica, ricordando che ci sono anche realtà come quella dei sindaci di Comuni sotto i 30 mila abitanti, il cui trattamento è palesemente inadeguato. In questi casi si tratta invece di correggere per dare una mano in più.
Formazione, comunicazione, progetto
Un ulteriore aspetto riguarda la formazione e la comunicazione. Diciamo intanto che sulla rete siamo presenti più di quanto si dica e più di altri. Riguardo l’uso della rete voglio dire due cose: non siamo interessati ai meccanismi autoreferenziali della rete, siamo invece interessati alla rete come potentissimo strumento di critica e di aggancio alla realtà.
La sua potenzialità risiede proprio in questo, come grande strumento di connessione con la fisicità, la materialità dell’azione politica. Quando portiamo l’esempio di Obama, in fondo ci riferiamo a questo.
Internet non sostituisce, anzi alimenta una dimensione comunitaria reale. In questo senso, sulla rete possiamo fare di più. Nel corso di questa Conferenza cercheremo anche idee nuove: come abbiamo i volontari per fare le feste democratiche, così noi dovremmo avere dei volontari della rete, perché la rete è un luogo cruciale di critica della realtà e di combattimento politico-culturale.
Intendiamoci, in molti casi saranno gli stessi che fanno le feste, perché noi abbiamo anche una generazione di giovani che partecipa alle feste. Non sto affatto parlando di due categorie distinte, sto dicendo che dobbiamo mantenere attivi entrambi i canali.
Credo che abbiamo risorse partecipative enormi da attivare. Mi riferisco anzitutto alle feste democratiche: non dobbiamo mai sottovalutare l’importanza di questi appuntamenti. Proverei anzi a raccogliere idee su come non limitare questi aspetti comunicazione popolare solo alla festa annuale e come trovare anche durante l’anno dei modi più rapidi e semplici per organizzare un’iniziativa culturale o un momento di ritrovo popolare.
L’obbiettivo deve essere quello arricchire l’iniziativa politica con momenti comunicativi e comunitari durante l’intero corso dell’anno.
Il terreno della formazione politica è per noi cruciale. Dobbiamo mettere a sintesi le iniziative interessanti che abbiamo già realizzato. In più, abbiamo ora un nuovo tassello molto importante: un grande progetto di formazione e mobilitazione di duemila giovani delle regioni meridionali.
Non entro nei dettagli, anticipo solo che sarà una sperimentazione, un modo per costruire un meccanismo di circolazione politica interna fra giovani già impegnati nel Mezzogiorno nella battaglia politica e amministrativa.
Non ho bisogno di aggiungere quanto sia cruciale questo tema del Sud, anche se certo nel Sud non tutte le realtà sono uguali. Ruolo dei territori e selezione delle migliori esperienze negli organismi dirigenti nazionali; funzione più incisiva del centro; formazione: sono tre leve anche per affrontare le situazioni in cui c’è da ricostruire daccapo, perché noi abbiamo situazioni in cui c’è da ricostruire daccapo.
Tutto questo però non può avvenire (lo vedremo meglio affrontando il progetto) senza una nuova piattaforma culturale, politica e programmatica per il Mezzogiorno. Se vogliamo costruire nuove classi dirigenti, non possiamo che farlo impugnando una nuova linea politica e una nuova idea del Mezzogiorno. È evidente, quindi, che c’è una questione di contenuti.
Riguardo la pari dignità femminile, la conferenza delle donne Pd, che si sta progressivamente strutturando, può esserci d’aiuto non solo come elemento di specializzazione dell’iniziativa, ma per imporre questa questione come un tema generale di battaglia politica nel Paese. Va benissimo la parità negli organismi dirigenti, ma insisto sempre nel dire che dobbiamo sempre farci percepire all’esterno come quelli che la parità la vogliono anche fuori. Non possiamo fare la società perfetto in un partito solo, su questo occorre che rafforziamo il messaggio esterno.
Facciamo attenzione a quel che sta succedendo nel Paese: il movimento civico che si è manifestato alle amministrative era strapieno di donne. È quasi una tautologia dire: si muove una spinta civica, si muove la società, si muovono le donne. E vorrei far notare che, se si guarda la composizione delle nuove giunte, stavolta, senza tanti conflitti, la parità di genere ha trovato un riconoscimento piuttosto diffuso. Ritengo che non sia un passo da poco, proprio perché collegato a una vittoria e a un cambio di fase.
Propongo di inserire nella discussione anche il tema delle nuove generazioni. I giovani devono potersi misurare sempre di più con responsabilità di direzione politica. Ne abbiamo tanti in giro. Abbiamo bisogno di portarli a sperimentare compiti di direzione a livelli superiori, perché non vengano fuori rinnovamenti estemporanei. Il rinnovamento è una cosa seria e dovrebbe essere uno dei compiti fondamentali di ogni leader e di ogni gruppo dirigente quello di promuovere la presenza delle nuove generazioni.
Qui c’è una missione specifica dell’organizzazione giovanile, che io definirei in questi termini: dare una mano perché una parte di tutto quello che si sta muovendo nel mondo giovanile possa indirizzarsi verso l’impegno politico. A mio giudizio, il compito principale dei giovani democratici potrebbe essere quello di stimolare quelle energie in circolazione nelle università, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, interessate o anche solo incuriosite dall’impegno politico.
Poi si vedrà come la pensano, però l’obiettivo prioritario deve essere quello di incoraggiare a un impegno politico quei protagonismi e quelle energie giovanili che sorgono su un terreno parziale e che poi purtroppo spesso non riescono a superare questa parzialità.
Ci siamo definiti il partito del lavoro, del lavoro non solo dipendente, ma imprenditoriale, autonomo, professionale, artistico. Possiamo anche qui esaminare la possibilità che sul tema del lavoro il partito organizzi un appuntamento annuale di riflessione e approfondimento. Faccio notare che Berlusconi, nell’ultimo intervento parlamentare, ha parlato per un’ora e non mai ha pronunciato la parola ‘lavoro’. È una cosa impressionante, che però ci dice anche che quanto spazio ci sia per un partito che davvero voglia sviluppare fino in fondo questa chiave.
Infine, possiamo discutere anche di come abbiamo organizzato le strutture centrali e regionali. Anticipo un mio giudizio di sintesi: le strutture dipartimentali e di forum non funzionano tutte allo stesso modo, però quelle che funzionano ci hanno consentito di riprendere rapporti con mondi e realtà importanti, di fare elaborazione, di essere presenti. Insomma, se ce n’è qualcuna che funziona, vuol dire che anche le altre possono funzionare. Su questo io non avanzo perciò proposte di modifiche strutturali, piuttosto intensificherei e formalizzerei di più una prassi che in parte già esiste: il lavoro comune fra dipartimenti, forum, gruppi parlamentari e gruppi consiliari regionali.
C’è da rafforzare, in particolare, la collaborazione con il nostro gruppo europeo. In realtà, la politica europea è ormai politica domestica, nazionale, non è più parte della politica internazionale. Facciamo veramente fatica a digerire questa novità, sia come sistema istituzionale, sia come partito. Su questo valuterei anche di introdurre un correttivo formale nella nostra struttura interna, per sottolineare questo cambiamento.
Siccome siamo partito di progetto, tutto quanto ho detto è naturalmente l’intelaiatura dell’elaborazione programmatica e delle battaglie politiche. Non mi sfugge che dobbiamo perfezionare anche il nostro modo originale di costruire progetto e proposte, anche se siamo arrivati già a un certo punto. Concluderemo entro fine anno il lavoro sul progetto, sviluppatosi con il contributo dei forum e le riunioni dell’Assemblea nazionale.
A me pare che questo lavoro abbia funzionato. Forse un difetto o, comunque, un limite si manifesta riguardo la ricaduta di questa elaborazione programmatica nelle dimensioni territoriali, dal livello regionale a seguire, un grande limite nella diffusione di ciò che elaboriamo.
Forse a questo problema non si ovvia solo con rimedi organizzativi, ma provando a rafforzare già nella fase ascendente, quella di costruzione iniziale delle proposte, il coinvolgimento delle dimensioni regionali e locali.
In conclusione, apriamo oggi un percorso inedito nelle esperienze della politica italiana e non solo italiana. La nostra Conferenza avverrà all'aria aperta, ricercando contributi in modo largo e coinvolgente e aiutandoci così a trasmettere, anche per via di metodo, un tratto della nostra identità.