Bruno Dorigatti, "L'Adige", 30 aprile 2011 Sembra che quest'anno non ci sia festività che rimanga indenne dalle strumentalizzazioni e dalle polemiche. Dopo il 150º dell'Unità d'Italia e il 25 aprile, anche il Primo Maggio, la Festa dei Lavoratori, sta subendo la stessa triste e avvilente sorte.
L'oggetto della disputa, come sempre un po' paradossale, riguarda l'opportunità dell'apertura delle attività commerciali e la rinuncia al giorno di riposo. In questa contesa si è chiamata in causa addirittura la libertà, come se lo shopping fosse un diritto di cittadinanza e il lavoro un orpello di valore inferiore. Noto un preoccupante deterioramento del concetto di cittadinanza, non più legato ai principi costituzionali dei diritti e dei doveri dei singoli: un popolo di consumatori, non di cittadini attivi, responsabili e partecipi.
Proprio il tema del lavoro merita, oggi più di ieri, momenti di confronto e riflessione collettiva: anche un simbolo, come la Festa dei lavoratori, assume un'importanza enorme per colmare quel vuoto di rappresentanza che ha prodotto, da due decenni a questa parte, una drammatica marginalizzazione del lavoro dalla sfera pubblica. Una giornata che ci impone di riflettere sulla destrutturazione dei diritti dei lavoratori, sulla cancellazione di parti fondamentali della nostra bella Costituzione, sulla messa in discussione dello stato sociale: tutte conquiste raggiunte con l'impegno sociale e la partecipazione, che sono il contrario dell'indifferenza e della rassegnazione alle quali sembriamo ormai condannati. Perché quindi svilire questa festa, perché creare nuove discriminazioni tra chi potrà celebrarla degnamente e chi sarà costretto a trascorrere un'ennesima domenica al lavoro? Un'ulteriore considerazione dovrebbe far riflettere: chi subirà maggiormente questa deregolarizzazione saranno soprattutto i giovani lavoratori, i precari, quelli che per 365 giorni l'anno vivono una situazione di incertezza e devono garantire piena e totale disponibilità. Quelli che beneficerebbero più di tutti dalla partecipazione ad un grande evento collettivo che li faccia sentire parte, fosse solo simbolicamente, di un mondo del lavoro che regolarmente li discrimina.
L'occupazione giovanile è senza dubbio uno dei temi forti di questo Primo Maggio. Le recenti indagini dei mercati del lavoro regionali dimostrano che l'inversione di tendenza, dopo quasi tre anni di crisi, non è ancora arrivata. I dati sulla crescita debole delle assunzioni per i giovani sotto i 30 anni e sul calo delle assunzioni con contratti a tempo indeterminato ci avvertono che l'occupazione è sempre più precaria e che le conseguenze della crisi pesano sempre più sui giovani. In Trentino non possiamo sederci sugli allori: se è vero che Trentino e Alto Adige sono al primo posto nelle classifiche italiane sull'occupazione giovanile, sono intorno all'ottantesimo a livello europeo. Il Tirolo, per fare un esempio a noi vicino, è al decimo posto tra le regioni più virtuose. Ciò dimostra che le nostre comparazioni devono essere fatte guardando a nord, ai mercati del lavoro più stabili e avanzati, senza adagiarci sui nostri primati in Italia.
Io sono convinto che per sostenere i giovani che bussano alle porte del mondo adulto, simbolicamente rappresentato dall'ingresso nel lavoro, sono necessarie efficaci azioni di orientamento: i modelli che si stanno imponendo contribuiscono invece a creare un vero senso di "disorientamento" tra i giovani, che si vedono imporre la scelta tra percorsi di studio lunghi e faticosi e un tuffo nelle acque gelide di un lavoro dequalificato, mal pagato e incerto. Ma ha davvero senso proporre questa anacronistica divisione tra lavoro manuale e istruzione qualificata? Io credo di no, per diverse ragioni. Da un lato, perché precarietà, stipendi bassi e ipersfruttamento sono caratteristiche trasversali: coinvolgono il libero professionista super qualificato che lavora 9 ore al giorno, guadagna meno di 15.000 euro all'anno ed è spesso costretto a periodi di non lavoro (quasi uno su due, secondo un'indagine dell'IRES), così come l'operaio assunto tramite agenzia interinale. Dall'altro, perché non possiamo più dare per scontato che una larga fetta del mercato del lavoro sia caratterizzato da mansioni deprofessionalizzate, che non richiedono alcun tipo di qualifica o specializzazione, che non prevedono una formazione e un aggiornamento costante. Se ci rassegniamo a questo, finiamo per accettare che l'Italia sia un Paese a crescita zero, dove la valorizzazione del capitale umano è considerata un fattore accessorio dello sviluppo e non la sua imprescindibile condizione. Come ha affermato il Governatore della Banca d'Italia, rivolgendosi agli studenti universitari, "senza la prospettiva di una pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si indebolisce l'accumulazione di capitale umano specifico, con effettivi alla lunga negativi sulla produttività". Capitale umano che deve essere messo al centro del mondo del lavoro, dall'azienda artigiana all'ente di ricerca: solo così, dall'intreccio sempre più evidente- nell'economia che cambia- tra tecnologie e competenze, abilità manuali e saperi, i territori possono ritornare a creare valore e ricchezza.
Buon Primo maggio a tutti!
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