Michele Nardelli, "Trentino", 26 aprile 2011 Erano le ore 1 23’ 45” del 26 aprile di venticinque anni fa quando una serie di incidenti a catena determinarono il disastro nucleare di Chernobyl, nella centrale intitolata a Vladimir Ilic Lenin.
Era una notte come tante altre, poi una forte esplosione, la sensazione di una scossa di terremoto, la gente di Pripyat che corre alle finestre, un incendio illuminava la centrale dove quasi tutti loro lavoravano, lì a due passi.
Ma la centrale nucleare era sicura, dicevano le autorità, e la gente quel giorno continuò a vivere nella normalità. Lo descrive con grande efficacia il regista Alexander Mindadze nel suo V Subbotu, Innocent Saturday nella traduzione inglese, Un sabato qualunque.
Nel resto dell’Europa era una notte di primavera, le prime ore di un sabato qualunque. Ho nei miei ricordi una giornata calda di inizio estate, a Palermo, immerso in un impegnativo congresso nel quale cercavamo di individuare strade originali per una sinistra che sapesse fare i conti con l’insostenibilità dello sviluppo illimitato.
Nonostante Glasnost (trasparenza) e Perestrojka (ristrutturazione, ricambio) fossero già all’ordine del giorno, l’Unione Sovietica cercò inizialmente di tenere nascosta la notizia, un po’ per abitudine all’omertà e un po’ perché subito forse nemmeno si resero conto della gravità dell’incidente.
Ma il 27 mattina, a Forsmark in Svezia, i lavoratori della locale centrale nucleare fecero scattare l'allarme ai rilevatori di radioattività. Dopo aver verificato che nelle loro centrali non vi fossero perdite, cominciarono a cercare altrove la fonte delle radiazioni e giunsero così fino in Unione Sovietica. Così il mondo intero venne a sapere. Solo 36 ore dopo, Michail Gorbaciov si presentò in televisione a raccontare quel che era accaduto alla centrale di Chernobyl.
L'emissione di vapore radioattivo cessò sabato 10 maggio 1986. In quei giorni il vento soffiava verso nord, la nube radioattiva investì dapprima la Bielorussia e i paesi del mar Baltico, poi Finlandia e Svezia, in seguito Polonia, Danimarca, Olanda e Regno Unito. Ma dal 29 aprile l’area depressionaria del Mediterraneo richiamò la nube tossica verso la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Slovenia, la Croazia, l'Austria e l'arco alpino e da qui verso l'Italia. Infine ad essere investite nei primi giorni di maggio furono l’Ucraina, la Russia meridionale, la Romania, la penisola balcanica e la Turchia.
Ci vollero anni per conoscere l’esatta dimensione dell’incidente. 35 tonnellate di combustibile nucleare proiettati all’esterno, una colonna di fumo e di elementi radioattivi di due chilometri d’altezza dispersa per un raggio di 1.200 Km, un livello di radiazioni pari a 20 milioni di curie equivalente ad un miliardo di Giga Beckerel (200 volte superiore a Hiroshima e Nagasaki), un’area contaminata di 155.000 kmq (un territorio fra la Bielorussia, la Russia e l’Ucraina grande come mezza Italia), 366.000 persone evacuate per sempre, sei milioni e mezzo di persone coinvolte, decine di migliaia di liquidatori (gli addetti al controllo dell’impianto dopo l’incidente) affetti da patologie tumorali, stime controverse ma comunque spaventose sul numero dei decessi a causa del disastro nucleare. Trecento anni per il ritorno alla normalità dei territori contaminati dal Cesio 137.
Frammenti ritornano alla memoria, le immagini delle persone che sacrificano la loro vita per spegnere l’incendio, i pullman carichi di bambini che lasciano tardivamente i grigi casermoni del socialismo reale, la pioggia che avvelena le campagne e i boschi, i divieti di consumare la verdura. In quel passaggio, forse per la prima volta nella mia vita, ho avuto la sensazione così netta dell’interdipendenza, ovvero di abitare un villaggio globale del quale non ci si può occupare a compartimenti stagni.
Un’altra immagine, qualche mese dopo. Alle cinque del mattino dell’8 novembre 1986 migliaia di persone circondano in un grande girotondo la centrale di Caorso. Nella fitta nebbia padana “Arturo” – così era chiamata la più grande centrale nucleare italiana in funzione dal 1981, un unico reattore da 860 MW con 190 tonnellate di combustile irraggiato – appare come il gigante di una moderna mitologia dell’homo faber e del suo delirio. La centrale è ferma da qualche giorno per lavori di manutenzione e per la ricarica del combustibile. Noi siamo lì per chiederne il blocco definitivo. Ricordo ogni momento di quella catena umana lunga dieci chilometri: il difficile rapporto con i lavoratori della centrale, le preoccupazioni che emersero nell’incontro con il Consiglio Comunale di Caorso, la gioia nell’essere riusciti anche solo simbolicamente a bloccarne i lavori. Anticipando così di un anno l’esito del referendum, quando l’80,6% degli elettori italiani pose la parola fine al nucleare. Rimasero le 1032 barre di combustibile nucleare di quella centrale, inamovibili per i vent’anni successivi, a monito di una eredità insostenibile, costosa, irresponsabile.
Valerij la verità la conosce. Ha sentito l’odore del veleno invisibile nei bagliori della notte e non è convinto delle assicurazioni dei burocrati. Convince la sua compagna Vera a fare le valigie e fuggire lontano. Mentre il resto della città si appresta a trascorrere un sabato come tanti, i due arrivano di corsa alla stazione ma perdono il treno… Come sulla tolda di un Titanic, la vita continua a scorrere sotto l’ombrello delle radiazioni e si suona, si canta e si balla, alla festa ubriaca di un matrimonio, dove Vera si riscopre cantante e Valerij riprende dimestichezza con le percussioni, tra un bicchiere di vodka e l’altro, lui che curava le feste locali del partito. È festa, e nulla può scalfire la serenità di un sabato del villaggio, neppure se lì, a pochi chilometri, un reattore nucleare sta emanando da ore le radiazioni che uccideranno migliaia di esseri umani. Il tempo per mettersi in salvo era ormai scaduto, l’ultimo treno utile ormai partito.
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