Ho giudicato sbagliato, nel metodo e nel merito, il documento del gruppo consiliare del Pd del Trentino, contro l'intervento in Libia, del quale l'Adige ha ampiamente riferito ieri.
Giorgio Tonini, "L'Adige", 24 marzo 2011
Con tutto il rispetto per il pensiero e la sensibilità degli amici consiglieri, penso sia espressione di una cultura politica, quella del rifiuto radicale e assoluto dell'uso della forza, che non è compatibile con la cultura riformista e di governo di un partito come il Pd.
Ci leggo anche un rimpicciolimento della grande cultura politica, nel campo politicamente decisivo delle relazioni internazionali, che una terra di frontiera come il Trentino ha saputo proporre all'Italia, attraverso uomini come Alcide Degasperi, Nino Andreatta, Bruno Kessler. Venerdì scorso, con il voto determinante di noi senatori e deputati del Pd, le commissioni parlamentari esteri e difesa hanno impegnato il Governo ad adottare ogni iniziativa necessaria per assicurare che l'Italia partecipi attivamente alla piena attuazione della risoluzione n. 1973 del 17 marzo 2011, approvata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, allo scopo di proteggere i civili e le aree popolate sotto attacco delle milizie di Gheddafi in Libia, mettendo a disposizione basi, navi e aerei militari. Abbiamo votato questo dispositivo non senza inquietudine, perché decidere l'uso, sia pur limitato e legittimo, della forza, è sempre difficile, ma lo abbiamo fatto con piena e serena convinzione.
Sappiamo infatti di aver preso una decisione coerente con l'articolo 11 della nostra Costituzione, che ripudia la guerra, se non per legittima difesa, ma rifiuta anche qualunque concezione neutralista o isolazionista, in favore di un impegno attivo per la creazione di un ordine mondiale giusto e pacifico. Sulla base dell'articolo 11 della Costituzione, come il Presidente della Repubblica ha ripetutamente ricordato in particolare in questi giorni, l'Italia non può restare indifferente rispetto alla qualità dell'ordine mondiale in termini di pace e di giustizia. Al contrario, l'Italia deve intervenire, e deve farlo attivamente, nel contesto internazionale, con il duplice vincolo stabilito dal fine, che deve essere la promozione della giustizia e della pace, e dal mezzo, che deve essere quello della legalità e del diritto internazionale come affermati attraverso la limitazione della sovranità dei singoli Stati e la promozione degli organismi multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite.
La costruzione di un nuovo ordine mondiale di giustizia e di pace passa oggi più che mai per il Mediterraneo e quindi coinvolge appieno ed in prima linea il nostro Paese. Dobbiamo guardare con speranza, e non con paura, a ciò che sta accadendo nel mondo arabo-islamico, che è attraversato da tensioni non prive di rischi, ma cariche anche di straordinarie opportunità di sviluppo e di progresso. È nel nostro interesse nazionale puntare su una nuova centralità del Mediterraneo, attraverso una nuova stabilità, affidata non più a regimi autocratici, ma a risposte affidabili alla domanda di libertà e di democrazia dei popoli arabo-islamici. Anzi, l'unico modo per difendere e promuovere l'interesse nazionale è quello di ancorarlo ad una visione lungimirante di politica estera che investa sulle energie di cambiamento, anziché sulla conservazione di un ormai indifendibile status quo. Il Governo Berlusconi si è attardato a lungo nell'illusione di poter difendere questo status quo, fino al punto di rischiare l'isolamento internazionale, pur di non rompere con Gheddafi. Noi democratici abbiamo fatto il nostro dovere di opposizione, incalzando il Governo ad assumere una posizione più coraggiosa.
Ma chi ha compreso meglio e per primo cosa si poteva muovere nel mondo arabo-islamico è stato il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, con il famoso discorso dell'Università del Cairo del 4 giugno 2009. Mentre noi ricevevamo con tutti i salamelecchi del caso Gheddafi (e fummo in pochi ad opporci, con successo, all'idea balzana di farlo parlare nell'aula del Senato), il Presidente nero dal nome arabo, immagine vivente di una globalizzazione inclusiva e plurale, affermava la compatibilità tra Islam e democrazia, si schierava dalla parte dei popoli che si battono per il valore universale della libertà e dei diritti umani e, al tempo stesso, ripristinava il rispetto della sovranità altrui e l'opzione preferenziale per il multilateralismo, entrambi violati da Bush con l'intervento in Iraq.
La dottrina del Cairo non ha evitato alla Casa Bianca esitazioni ed incertezze dinanzi al precipitare degli eventi, imprevedibile per tutti, almeno nei modi e nei tempi, tuttavia ha consentito ed offerto un nuovo paradigma per affrontare un passaggio storico così difficile e così impegnativo come quello che riguarda il Mediterraneo: un passaggio che ha tutte le caratteristiche di una rivoluzione, non è una passeggiata, ma un grande, tumultuoso, quindi anche doloroso e conflittuale, rivolgimento storico.
La crisi libica e l'arroccamento di Gheddafi hanno malamente complicato la situazione. Le violenze e le atrocità che Gheddafi ha commesso contro il suo popolo gli sono valse la condanna unanime della comunità internazionale con la risoluzione n. 1970 e l'autorizzazione all'uso della forza, per imporre il cessate il fuoco e proteggere le popolazioni civili, con la risoluzione n. 1973. Ora il multilateralismo deve dimostrarsi efficace sul difficile, insidioso terreno libico, costringendo Gheddafi a mollare la presa e consentendo al popolo libico di trovare la sua via verso la libertà. Noi dobbiamo essere dalla parte di questo popolo, offrire a questo popolo la sponda della legalità internazionale e dell'uso misurato e responsabile della forza. Abbiamo davanti a noi una sfida grande. Cerchiamo tutti di esserne all'altezza.