Trento, 22 marzo 2011
L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
(Art. 11 Costituzione italiana)
Com’è possibile che oggi l’Italia si trovi insieme a Francia ed Inghilterra a bombardare Tripoli, con Lampedusa invasa da migliaia d’immigrati in fuga dal nord Africa, e con la Libia che minaccia ritorsioni?
Le guerre non nascono per caso, e la democrazia non si esporta lanciando missili e bombe da chilometri di distanza.
Quello che accade in Libia in queste ore infatti ha ben poco a che fare con la rivoluzione dei gelsomini. In Tunisia, in Egitto e in tanta parte del mondo arabo milioni di giovani donne e uomini hanno scelto di riprendere nelle loro mani il proprio destino. Mani nude, con gli strumenti della comunicazione elettronica e del passa parola, con la forza e l'orgoglio della dignità, senza simboli religiosi né bandiere del Novecento.
La Libia è un'altra storia, che abbiamo già visto tanto sul piano delle dinamiche interne (troppo simili appaiono i contendenti in armi) quanto su quello dei comportamenti della comunità internazionale (dove la guerra è ancora il prolungamento della politica, con altri mezzi).
La decisione dell’Italia di partecipare alla “coalizione dei volenterosi”, nell’interpretazione aggressiva (e interessata) della risoluzione dell’ONU, è lo specchio di un approccio datato ed incapace di cogliere questa differenza di contesto. E così, dopo aver esitato per settimane su cosa sarebbe stato più conveniente, la scelta compiuta appare tardiva, confusa e controproducente.
“Non potevamo stare a guardare”, è la giustificazione più rilevante per l’intervento in Libia. Quando si è fra il bene e il male bisogna schierarsi. “Non potevamo che stare dalla parte di chi rivendica la libertà”.
Ma il diritto internazionale ruota attorno ad equilibri delicati, i rapporti tra Stati sono caratterizzati da trattati, convenzioni e consuetudini, ed il ruolo degli organismi internazionali non è facile, perché alle Nazioni Unite è stata sottratta la forza dell’interposizione dei Caschi Blu, delegando nei fatti agli Stati il monopolio nell’uso “legale” della forza.
Così gli interessi “nazionali” ritornano dominanti e con essi la condizione geopolitica di ciascun territorio: disponibilità di materie prime, posizione geografica, storia e vicissitudini culturali.
Ne prendiamo atto con amarezza. Ancora una volta l’Europa si presenta inadeguata e divisa agli appuntamenti cruciali. La prospettiva apertasi con il “Processo di Barcellona” per una vasta partnership fra i paesi del Mediterraneo si è andata progressivamente arenando. E l’Italia, che del Mediterraneo è il cuore, ha da tempo lasciato cadere il suo tradizionale ruolo di cerniera (e di dialogo) con il mondo arabo.
Un ruolo che rischia di essere ulteriormente compromesso con la crisi libica. E che di certo non saremo in grado di ricostruire, né come paese, né sul piano delle relazioni multilaterali, inseguendo politiche neocoloniali o semplicemente l’idea di ripristinare anacronistiche aree d’influenza, il tutto aggravato da un intervento militare che si sta già rivelando controproducente, confuso e che ci spinge in una spirale violenta degli esiti imprevedibili.
Impressiona, in questo quadro, l’incapacità di leggere il processo democratico che si è aperto in tutto il mondo arabo che rischia di essere indebolito dalla militarizzazione della regione.
L’intervento armato ha il solo effetto di acutizzare il conflitto. Un atteggiamento che ricorda quel medico che non cura per anni i propri pazienti e poi, di fronte all’impossibilità di contenere il morbo, allarga le braccia e decide di amputare.
Occorre un cambio di approccio. Occorre imparare dalle secche in cui è finita la comunità internazionale, tanto nei Balcani quanto in Iraq o in Afghanistan.
Il tema della modalità efficace di risoluzione dei conflitti internazionali non è più rimandabile. Se l’unico strumento che conosciamo per attuare le risoluzioni degli organismi internazionali è l’intervento armato in realtà non ci stiamo dando alternativa alcuna ai bombardamenti: lo abbiamo fatto ieri, lo facciamo oggi, lo rifaremo domani.
La nostra coscienza dovrebbe chiederci di investire con maggiore convinzione sulle alternative ovvero sulla diplomazia, sulla politica e sull’intervento nonviolento civile. Senza escludere affatto l’intervento di interposizione e di dissuasione armata, qualora necessario, ma nell’ambito dell’esercizio del diritto internazionale.
Intanto, gli avvenimenti di Libia gettano un cono d'ombra sulla primavera araba. Le immagini di lunghe fila ai seggi nelle elezioni egiziane sono la migliore attesa. Laddove parlano le armi, perde la politica e dove perde la politica vincono i fondamentalismi.
Il gruppo consiliare provinciale del Partito Democratico del Trentino