Bruno Dorigatti, "L'Adige", 17 marzo 2011
Oggi non si lavora. È festa nazionale, e si è deciso di darle il giusto peso concedendo un giorno di riposto alle lavoratrici e ai lavoratori italiani. Certo si poteva arrivare a questa scelta in maniera diversa, pianificandola per tempo e posticipando l'astensione dal lavoro al venerdì.
Ma troppe polemiche e troppe strumentalizzazioni hanno portato ad un ennesimo pasticcio all'italiana. Ora però il 17 marzo è arrivato, non si va al lavoro e il calendario è ricco di appuntamenti culturali, iniziative artistiche, manifestazioni istituzionali di grande valore. Approfittiamo di questa opportunità per concederci un po' di tempo per stare insieme e per riflettere su noi stessi, sulla società in cui viviamo, sui problemi del nostro tempo.
Io vorrei sfruttare questa giornata di non lavoro per riflettere proprio sul mondo del lavoro. Voglio farlo non solo per il grande contributo che le lavoratrici e i lavoratori hanno dato alla crescita e al benessere dell'Italia, contributo troppo spesso dimenticato e messo in secondo piano: io credo sia opportuno parlare di lavoro oggi, festa dell'Unità d'Italia, perché è questo uno dei fattori che ancora divide il nostro Paese sotto ogni punto di vista. È vero che la Costituzione sancisce chiaramente che la nostra è una repubblica democratica fondata sul lavoro: ma questo lavoro, oggi più che mai, disegna sulla penisola una mappa piena di differenze.
La disuguaglianza ha traiettorie diverse e scava confini che si intrecciano in molte direzioni. Divide l'Italia geograficamente, separando Nord e Sud in modo netto. È vero che una delle conseguenze della crisi economica è stata la generale diffusione della disoccupazione, che ha investito anche realtà- come la nostra provincia- che sembravano immuni da questo fenomeno: ma rimane enorme il divario nella situazione occupazionale tra il Mezzogiorno e le regioni settentrionali, con tassi di disoccupazione che al sud superano il 13%. Divide il Paese anagraficamente, tracciando un solco profondo tra generazioni. A gennaio 2011 la disoccupazione giovanile ha sfiorato il 30%: a questo dato, già drammatico in sé, va aggiunto che i giovani che accedono al mondo del lavoro lo fanno privi di ogni forma di stabilità, in balia di una precarietà che coinvolge e condiziona tutta la loro vita. I giovani precari sono stati i primi a pagare il prezzo della crisi, non vedendosi rinnovati i contratti, e saranno coloro che pagheranno più duramente anche le necessità della ripresa: le poche aziende che ricominciano ad assumere offrono infatti posti di lavoro precari, non garantiti, e continueranno a farlo in assenza di una coraggiosa iniziativa politica a favore dell'occupazione giovanile, professionalizzata e di qualità.
Divide i cittadini italiani secondo criteri di censo. L'Italia è uno dei paesi in Europa con il minor tasso di mobilità sociale: senza arrivare agli estremi delle professioni ereditarie- che pur ci sono e rappresentano un retaggio primitivo del nostro ordinamento sociale- in Italia si trasmette di padre in figlio il livello sociale, per non usare il vecchio termine di "classe". Siamo un Paese quasi immobile, privo di dinamismo sociale ed economico: a parità di laurea, un figlio di operai arriva a guadagnare di media 200 euro al mese in meno del coetaneo proveniente da ceti più agiati. Nemmeno la scolarizzazione, quindi, sembra garantire lo sbloccarsi delle diseguaglianze sociali e la creazione di nuove e migliori opportunità: a quasi 50 anni dalla riforma della scuola media, che ha dato un forte impulso alla mobilità sociale nel nostro Paese, è sempre più necessario ripensare in modo serio e condiviso il nostro sistema di istruzione e formazione.
Sembrano considerazioni distanti dalle celebrazioni di oggi, ma non lo sono affatto. Non è l'Italia del 1861 l'oggetto delle nostre riflessioni, ma l'Italia dell'oggi. Soprattutto, gli italiani di oggi, con i loro bisogni, i loro problemi, la loro quotidianità fatta di salari e pensioni troppo bassi, di costo della vita in continuo aumento, di condizioni di lavoro che peggiorano, di tutele sociali che diminuiscono. Mi piace citare Giuseppe Di Vittorio, una delle figure più nobili della storia italiana, che riconosceva nelle lavoratrici e nei lavoratori il fondamento dello sviluppo del Paese, il suo più grande capitale, e nel loro protagonismo un presidio di libertà e democrazia, il tessuto connettivo che sta alla base stessa dell'unità nazionale. Questo chiama in causa il nostro essere cittadini, l'esercizio dei nostri diritti, l'assunzione delle nostre responsabilità: senza questa costruzione di senso comune l'identità nazionale rimane un vuoto esercizio linguistico.