Torino, Lingotto, 22 gennaio 2011 "E’ ancora una volta da qui, da questo luogo, ieri di fatica operaia e oggi di servizi, tecnologia, idee, che vogliamo parlare della nostra Italia. Qui, da questa meravigliosa città che ha esaltato i due tratti fondamentali della nostra peculiarità nazionale, la voglia di intraprendere e lavorare e la grandezza del talento e della creatività.
Da qui, ancora una volta, deve venire una spinta coraggiosa a rendere possibile ciò che oggi rischia di sembrare impossibile.
Da qui deve venire l’indicazione di una luce per uscire dal tunnel e dall’incubo nel quale è precipitato il paese.
In queste ore si è passato ogni segno e la situazione è diventata davvero carica di preoccupazione per tutti coloro che credono nei valori della democrazia e nei valori liberali. E parlo di politica, non di altro.
Un uomo di governo che minaccia i giudici che lo indagano. Sono le agghiaccianti parole pronunciate da Berlusconi nell’ultimo suo messaggio televisivo. Ciò che dava più dolore è che quella espressione minacciosa sulla “punizione” dei magistrati veniva pronunciata davanti alla bandiera tricolore. Nessuno lo può dimenticare: per difendere l’onore di quella bandiera e di questa nazione molti magistrati di Milano, come i loro colleghi di Genova, di Torino, di Roma e come gli eroi semplici di Palermo hanno dato la loro vita.
La situazione in cui l’Italia si trova è davvero grave e pericolosa. Il presidente del consiglio è accusato non di comportamenti, ma di reati, reati gravi. Egli sostiene, per l’ennesima volta, che solo di fandonie e di complotti si tratta.
Ha il diritto di dirlo, anche contro ogni evidenza. Ma non lo deve dire in Tv, facendosi scudo del suo ruolo e utilizzando il suo impero mediatico. Deve dirlo, come ogni cittadino, ai magistrati.
Ha sostenuto che questa volta non lo farà perché la procura di Milano è incompetente. Questa volta? Per non comparire davanti ai magistrati che cercavano la verità ha inventato ogni diversivo possibile, fino a costringere il Parlamento a dedicare buona parte di questa legislatura ad approvare una legge che lo tenesse al riparo dal rischio di dover rispondere alle domande degli inquirenti.
O Berlusconi è in grado di chiarire immediatamente tutto ai magistrati, come è suo diritto ma come dubito possa fare, oppure esiste una sola possibilità. Per una volta pensi a questo paese ferito e colpito. Per una volta pensi a sessanta milioni di cittadini e non a se stesso. Faccia un passo indietro, si dimetta, nell’interesse dell’Italia.
Tornerò più avanti sulle scelte che credo debbano essere compiute in questa delicata fase. Insieme alla preoccupazione, dobbiamo però anche coltivare la fiducia che il paese ora voglia davvero cambiare e ritrovare la serenità perduta.
A distanza di diciassette anni dalla famosa “discesa in campo” di Berlusconi, la promessa di una “rivoluzione liberale”, che modificasse in profondità la struttura del paese, si sta trasformando nel suo esatto opposto.
In mezzo, tra il 1994 e il 2011, c’è il fallimento di ben tre tentativi di governo: tutti e tre salutati al loro insediamento come il vascello che avrebbe finalmente portato l’Italia nel nuovo mondo della modernità, tutti e tre finiti sulle secche, o addirittura colati a picco, con il loro carico di aspettative di cambiamento, appena fuori dal porto.
Più o meno come avvenne alla Wasa, il vanto della marina svedese del Seicento, che si rovesciò e affondò il giorno del varo, davanti agli occhi increduli del re.
E come i maestri d’ascia di Stoccolma tentarono di dare la colpa di quel disastro ad un’improvvisa raffica di vento, così Berlusconi se l’è presa la prima volta coi “ribaltonisti”, la seconda volta con l’11 settembre, la terza volta con la crisi mondiale. E tutte e tre le volte, ovviamente, con la magistratura.
La verità è che la Wasa era mal progettata: aveva un aspetto imponente e un impressionante numero di cannoni, ma non era in grado di tenere il mare. Proprio come il berlusconismo, tanto aggressivo nella propaganda e inarrivabile nella sua potenza di fuoco mediatico, quanto inadatto a governare e a riformare il Paese.
Lo abbiamo scritto a chiare lettere nel documento dei 75 che ha dato vita al nostro Movimento democratico: la radice del suo fallimento sta nel fatto che il berlusconismo è una forma di populismo e il populismo è l’antitesi, la negazione del riformismo.
Ma non siamo venuti qui, al Lingotto, solo per ripeterci che l’Italia sta male e che il berlusconismo è fallito.
Siamo venuti qui anche per interrogarci su cosa possiamo fare noi, noi democratici, quali idee e quali forze possiamo mettere in campo, per dare all’Italia, al nostro Paese, fiducia e speranza nel futuro.
E lo facciamo con l’intento di contribuire positivamente al lavoro di definizione del programma del Pd che è in corso da diversi mesi.
Perché non ci sono scorciatoie. Il miglior modo, forse l’unico modo di accelerare la fine del berlusconismo, è preparare il dopo Berlusconi, la politica di un nuovo ciclo della storia italiana.
Dobbiamo dirci la verità, oggi gli italiani non credono ancora che da noi, dal nostro partito, dal Partito democratico, e più in generale dal centrosinistra, possa giungere la risposta ai loro problemi, ai problemi del paese.
Lo dimostra il fatto che da mesi e mesi, al calo verticale di fiducia nei confronti di Berlusconi, del suo governo e del suo partito, non fa riscontro, come dovrebbe, la crescita di fiducia e di consenso per il Pd, che anzi scende nei sondaggi.
A lungo, non noi, ma molti nel nostro partito hanno pensato che potesse essere una tradizionale strategia delle alleanze a sopperire al nostro calo di consensi. Oggi è chiaro a tutti che non è così.
Solo se il Pd riprenderà a crescere nella fiducia e nel consenso tra gli elettori, potrà trovare sulla sua strada anche le alleanze necessarie.
E solo un Pd che sappia proporre agli italiani una visione del futuro, un progetto coraggioso di cambiamento e una proposta di governo autorevole, credibile e affidabile per realizzarlo, può tornare a crescere, a riconquistare le menti e i cuori degli italiani.
Fino a rendere realistico l’obiettivo di diventare il primo partito del paese, il promotore e il protagonista di quel ciclo riformatore, solido e duraturo, che l’Italia non ha mai conosciuto nella sua storia.
Tre sono le condizioni perché la proposta dei democratici possa rivelarsi una via concreta e realistica.
La prima è quella di liberarci dalla tentazione di opporre al populismo berlusconiano un altro populismo, uguale e contrario.
Il populismo di destra non si batte col populismo di sinistra, ma con il riformismo, con la costruzione delle condizioni necessarie a dare nuova forma alla convivenza civile.
La seconda condizione è quella di affrancarci dall’illusione frontista, dalla coazione a ripetere la fatica di Sisifo di costruire schieramenti eterogenei, accomunati solo dall’essere “contro” l' avversario, ma incapaci di reggere la prova del governo.
L’esperienza dovrebbe averci insegnato che non si vince senza una credibile proposta di governo e non si governa senza coesione politica e programmatica.
La terza condizione è il coraggio dell’innovazione. Il motto dei democratici non può essere “difendere”, ma “cambiare”.
Questo non è nuovismo, è realismo: in un mondo nel quale tutto cambia velocemente, se i democratici si chiudono in difesa non potranno impedire il cambiamento.
Semplicemente, dovranno rassegnarsi a subirlo, a vederlo procedere sulla base di valori e interessi altrui, anziché essere loro, almeno in parte, a produrlo, a guidarlo, a orientarlo.
La grande crisi finanziaria, economica, occupazionale ci pone di fronte a nuove sfide, per affrontare le quali non sarà la nostalgia di Ulisse ad aiutarci, il suo struggente desiderio di tornare a casa, ma piuttosto la speranza di Abramo, il suo sofferto coraggio di mettersi in cammino verso cieli e terre nuove.
Il novecento è finito, davvero. E anche modi di pensare, categorie culturali e politiche che lo hanno attraversato non bastano più a leggere gli sconvolgenti mutamenti di questo nuovo tempo della storia.
La crisi finanziaria e la grande recessione di questi anni hanno decretato la fine del paradigma neo-conservatore, che aveva fatto dell’aumento delle disuguaglianze il motore della crescita. Ma non segnano il ritorno di vecchi modelli di pensiero.
La vittoria di Obama e i grandi cambiamenti che sta producendo in America e nel mondo, ci dice che davanti a noi si è aperta la possibilità di dar vita ad una fase nuova, che veda protagonisti i democratici, la loro cultura politica, il loro ideale storico concreto: coniugare in modo innovativo, nella democrazia, crescita economica, uguaglianza sociale e qualità ambientale.
1. Vogliamo eleggere il Presidente degli Stati Uniti d’Europa
L’Europa è stata l’architrave della stagione dell’Ulivo e del primo governo Prodi, una delle poche, vere e purtroppo brevi stagioni riformatrici che abbia conosciuto l’Italia. Un governo del quale fu protagonista, con la sua meravigliosa eleganza intellettuale e la sua probità, Enrico Micheli. Un amico sincero che ricorderò, sempre, con grande affetto.
Al banco di prova della crisi, l’Europa guidata da esangui governi moderati, assediati da destre populiste, si è dimostrata divisa, spenta, incapace di fornire risposte comuni.
L’Unione europea ha bisogno di scelte politiche coraggiose. Perché la crisi dell’Euro chiarisce i termini della questione: o si abbandona la moneta unica, o si va avanti, verso una vera unione economica e in definitiva verso una vera unione politica.
L’accordo raggiunto in seno al Consiglio europeo, per una nuova governance economica è un passo avanti importante.
D’ora in avanti manovre finanziarie e riforme economiche dovranno essere concertate tra i governi e con la Commissione.
Ma difficilmente avrà successo la politica di stabilità senza una politica europea di sviluppo.
Il rilancio della proposta Delors, di istituire un fondo europeo per grandi investimenti, finanziato attraverso l’emissione di Eurobond, è dunque un passaggio di vitale importanza.
E la proposta avanzata dal presidente dell’Eurogruppo Junker insieme al ministro Tremonti, che riprende un’idea di Mario Monti, sulla gestione europea del debito pubblico è un segnale interessante e positivo.
Come sempre accade per l’Europa, ogni progresso apre nuovi problemi e presenta nuove sfide.
Se, come sta avvenendo, la sovranità della politica economica si sposta dagli stati membri all’Unione, non si può non porre il tema di chi la esercita.
Se non vogliamo che la eserciti lo Stato più forte, dobbiamo dare all'Europa non uno Stato – perché l'Europa è costitutivamente “poliarchica” – ma un’autorità di governo: che sappia far valere il punto di vista europeo di fronte al riemergere di spinte intergovernative e nazionaliste; che superi il deficit di democrazia che allontana i cittadini europei dall’Unione; e che consenta finalmente all’Europa di parlare nel mondo globalizzato e multipolare con una voce sola.
Di fronte all’affievolirsi delle ragioni costitutive del processo di integrazione, di fronte all’afasia delle famiglie politiche europee, è venuto il momento di “dare un volto alla democrazia europea”, come suggeriva Tommaso Padoa-Schioppa.
I tempi sono maturi per porre al centro dell’agenda politica europea, attraverso una iniziativa determinata dell’Italia, paese fondatore, il paese di De Gasperi e di Spinelli, l’obiettivo storico dell’elezione popolare diretta del Presidente degli Stati Uniti d’Europa.
Penso che i democratici debbano fare di questo grande obiettivo una loro bandiera, attorno alla quale intraprendere una battaglia politica, culturale, civile, in Italia e in Europa.
La strada è in salita, ma va nella direzione della storia: l’alternativa, per l’Europa, per i paesi e i popoli europei, è la disgregazione e la subalternità nel mondo.
2. Facciamo come la Germania: un’Agenda 2020 per l’Italia
Entrando nell’Euro, l’Italia si è impegnata a ridurre il debito pubblico ed ha rinunciato per sempre a usare la svalutazione della moneta.
E invece ha mancato entrambi gli obiettivi.
E’ ora di cambiare strada. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo agli italiani che soffrono di più, che fanno più fatica a lavorare e a vivere.
E lo dobbiamo in particolare ai giovani, ai nostri figli, ai quali non possiamo lasciare in eredità pesi e vincoli, che rendono sempre più chiuso e buio il loro futuro.
Solo una stagione di riforme può liberare le energie presenti nella società italiana e mettere a valore le grandi risorse delle quali dispone, per investirle in un programma innovativo di crescita economica solida e di qualità sociale elevata, battendoci contro tutti i conservatorismi, quelli di destra e quelli di sinistra.
Del resto, il successo della Germania, invidiato in tutta Europa, è in gran parte figlio del riformismo coraggioso del governo Schroeder-Fischer.
Altro che sconfitta strategica della “terza via”. E’ stato grazie alle scelte compiute dal governo rosso-verde con la famosa Agenda 2010, allora tanto contestata, che la Germania della signora Merkel può oggi raccogliere frutti in modo puntuale e in misura copiosa.
Noi vogliamo che l’Italia si metta a “fare come la Germania”: dobbiamo darci una nostra Agenda 2020, un pacchetto di riforme chiare e precise che, nell’arco di un decennio, consentano risanamento finanziario e dimezzamento del debito, crescita sostenuta dall’aumento della produttività, in un contesto di maggiore giustizia sociale e di sostenibilità ambientale.
3. Portiamo il debito a quota 80 per cento
Noi democratici dobbiamo essere in prima fila nel definire e nel proporre un piano credibile per ridurre il volume globale del debito, entro il 2020, all'80 per cento del Pil.
Raggiungere questo ambizioso risultato è difficile, ma è necessario ed è possibile, dunque è doveroso: attraverso un’azione in tre mosse.
La prima è una vera e propria rivoluzione sul versante della spesa pubblica corrente primaria. Nonostante tutti i tagli lineari di Tremonti, nell’ultimo decennio è cresciuta in media del 4 per cento l’anno. Dobbiamo invece porci l’obiettivo vincolante di farla aumentare annualmente della metà della crescita del prodotto nominale: ad esempio, se il Pil cresce del 2, la spesa non può crescere più dell’1.
La strada maestra non sono i ”tagli lineari”, ennesima prova dell’idiosincrasia a scegliere, ma un vero “piano industriale di ristrutturazione” del settore pubblico che abbia come obiettivo chiaro ed esplicito: “fare meglio con meno”.
Serve una revisione di tutta la spesa, settore per settore. Nulla più deve essere dato per scontato. Nulla si deve continuare a fare in un certo modo solo "perchè si è sempre fatto così". Tutto deve essere trasparente e valutato. Carriere e stipendi di tutti, in alto come in basso, vanno legati alla valutazione dei risultati.
Abolizione delle province nelle città metropolitane; un solo Ufficio territoriale del Governo; un solo istituto di previdenza; un nuovo modello di difesa, integrato in Europa, con meno uomini, e mezzi più sicuri ed efficaci.
E l’introduzione del tempo come nuovo paradigma del pubblico. I cittadini hanno diritto a scadenze certe: per una pratica, per una sentenza, per una concessione.
La seconda mossa è la valorizzazione del patrimonio pubblico: un asset che vale quanto il debito.
Di recente, per finanziare spesa corrente, si è fatto come i nobili decaduti, che vendono ali del castello per sostenere un tenore di vita che non possono più permettersi.
Quella che proponiamo qui è una strada radicalmente diversa: una quota significativa del patrimonio pubblico va conferita ad un'apposita Società, partecipata dal sistema delle Autonomie, che la paga finanziandosi sul mercato e recando a garanzia il patrimonio ricevuto.
Tutte le risorse acquisite, dal primo all’ultimo centesimo, sono usate dallo Stato per ridurre il debito, mentre la Società sarà libera di valorizzare il patrimonio come meglio crederà, fermi restando i vincoli culturali, ambientali e storico-paesaggistici.
E’ solo in questo contesto, di rigore nella spesa, e di valorizzazione degli asset pubblici, che può entrare in campo anche la terza mossa.
La Banca d’Italia ha certificato di recente che il decimo più ricco della popolazione italiana – attenzione: in termini di patrimonio, non di reddito – possiede quasi la metà del patrimonio privato italiano, che nel suo insieme ammonta a circa il triplo del debito pubblico.
Proprio qui al Lingotto, citando Olof Palme, io dissi e confermo che noi democratici non siamo contro la ricchezza, ma contro la povertà. La ricchezza, per noi, non è una colpa da espiare, ma un legittimo obiettivo da raggiungere.
Ma la ricchezza non può non essere anche una responsabilità da esercitare. Perché se vogliamo essere davvero una comunità, è giusto che chi ha di più contribuisca di più ad uno sforzo collettivo che ha come scopo un interesse fondamentale di tutto il paese.
E’ per questo che io penso che un governo riformista degno di questo nome potrebbe credibilmente rivolgere al decimo più fortunato degli italiani un discorso di questo genere:
«Il debito pubblico è un cancro che divora il futuro del nostro paese. Io sto facendo ciò che è possibile e necessario per debellarlo: ho messo in ordine i conti e in valore il patrimonio pubblico. Per abbattere il debito più rapidamente, ho bisogno del vostro aiuto: vi chiedo un contributo straordinario per tre anni per far scendere il debito in modo rapido verso dimensioni più rassicuranti».
Quando i cittadini decisero di pagare l’Eurotassa tutti compresero che era necessaria, doverosa, utile. Un governo autorevole, dentro una manovra credibile come quella illustrata, potrebbe ripetere, in altri termini, il miracolo compiuto dal governo dell’Ulivo.
L’Italia si libererebbe finalmente dalla morsa del debito e si renderebbero disponibili risorse imponenti, oggi bruciate per pagare gli interessi, che potrebbero essere invece impiegate per gli investimenti e quindi per la crescita, per le politiche sociali e dunque per l’uguaglianza.
4. Per il lavoro: produttività, contrattazione, partecipazione
L’Italia non riprenderà a crescere se non si libererà dalla morsa del debito. Ma anche viceversa: non sarà possibile liberarsi dal debito, se non riprendendo a crescere.
Anche su questo versante c’è poco da difendere e molto da cambiare, quando la struttura economica di un paese è caratterizzata da bassa produttività, bassi salari e bassa occupazione, mentre ad essere alta è solo la precarietà.
La situazione va radicalmente rovesciata, con un nuovo patto tra produttori: per far crescere insieme la produttività, i salari e l’occupazione e per ridurre la precarietà mediante un forte sistema di flexicurity.
Per questo dobbiamo riaffermare la vocazione industriale e manifatturiera del nostro paese, insieme all’apertura del nostro mercato agli investimenti esteri.
Per questo il successo dell’operazione Fiat-Chrysler, con la nascita e il consolidamento sul mercato mondiale di una grande multinazionale dell’auto, fortemente radicata in Italia, è di importanza strategica per il futuro del paese.
E per questo abbiamo espresso un convinto consenso ai pur difficili e dolorosi accordi su Pomigliano e su Mirafiori.
Sono accordi che chiedono un supplemento di impegno, di fatica, di disciplina, a lavoratori che già vivono condizioni di lavoro pesanti, in cambio di retribuzioni certamente inadeguate.
A quei lavoratori, al loro “si” contrastato e sofferto, pensiamo debba andare il rispetto, l’ammirazione, la gratitudine di tutti gli italiani. Così come occorre comprendere le ragioni del no e con esse dialogare.
Senza gli accordi non ci sarebbe stato l’investimento: Napoli, Torino, l’Italia avrebbero visto ridimensionata una presenza industriale che deve invece essere confermata e rilanciata.
Con gli accordi, Fiat ora è chiamata a confermare ed estendere il suo radicamento in Italia.Ed è chiamata a mostrare la sua forza inventando prodotti competitivi sui mercati.
Con gli accordi, per i sindacati, la cui unità non dobbiamo mai smettere di cercare e promuovere, per le imprese e per la politica, si è aperta una fase nuova, una stagione paragonabile a quella in cui si affermò una nuova legislazione del lavoro, ormai decine di anni fa.
E’ un tempo per i riformisti, quello che ora si può e si deve aprire.
Prima di tutto: nuove relazioni industriali. L’approvazione degli accordi per la nuova Fiat accelererà la tendenza allo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva dalla dimensione nazionale verso i luoghi di lavoro.
E’ quindi ancor più necessario e urgente costruire un nuovo modello di relazioni sindacali e ridefinire, in questo contesto, le regole della rappresentanza, per fare non meno, ma più contrattazione collettiva, in un contesto sicuro di diritti e doveri per ciascuna organizzazione.
La via maestra è quella di un accordo interconfederale, eventualmente tradotto poi in norma di legge. Ma sono tredici anni che se ne parla.
Ha quindi ragione Pietro Ichino, quando propone, in carenza di accordo, di approvare una legge, che attribuisca in modo alla coalizione sindacale maggioritaria il potere di negoziare con efficacia per tutti e al sindacato minoritario, anche se rifiuta di firmare, non il potere di veto, ma il diritto alla rappresentanza in azienda.
Ma c’è una questione ancora più grande che è tempo di affrontare senza gli schemi ideologici di una storia passata. Cominciammo a farlo nel programma elettorale del 2008. Si chiama partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda.
E’ ora e tempo di dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione: un articolo frutto della convergenza riformatrice di due personalità del rilievo e della statura di Giovanni Gronchi, che fu l’estensore del testo dell’articolo, e di Giuseppe Di Vittorio, che lo sostenne e lo difese contro gli opposti conservatorismi ideologici della destra liberale e del radicalismo di sinistra, “attribuendo al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del paese”.
Partecipazione significa diritto di accesso dei lavoratori, rigorosamente basato sul principio contrattualistico, alle informazioni sull’andamento dell’impresa ed eventualmente anche partecipazione agli organi di controllo della gestione, partecipazione al capitale, senza escludere quella agli utili.
E’ attraverso la partecipazione nella gestione dell’impresa, che i lavoratori possono condividere con il management la “scommessa” legata a piani di sviluppo innovativi, che chiedono grandi investimenti in capitale e lavoro e pretendono da entrambi forti dosi di condivisione del rischio.
Se il piano ha successo e gli obiettivi produttivi vengono conseguiti, deve risultarne direttamente influenzato l’assetto retributivo, sia dei lavoratori, sia del management, a partire dal leader dell’azienda.
Ma voglio, a questo punto, dire con chiarezza: basta con esagerate stock-option e premi milionari per i manager, esercitabili senza vincolo temporale e centrati sui risultati finanziari e speculativi di breve periodo, anziché su quelli industriali, con l’inevitabile, conseguente conflitto d’interessi, fonte di sospetti e di sfiducia.
Anche a questo proposito Obama ci fornisce un riferimento prezioso. Negli Usa, il presidente ha potuto e dovuto agire sugli emolumenti scandalosi dei top-manager delle banche salvate coi soldi dei contribuenti.
Qui in Italia, possiamo limitarci a chiedere che alla Fiat anche il contratto di Marchionne sia legato, come quello dei lavoratori, al successo di lungo periodo del piano Fabbrica Italia.
5. Contro la precarietà, un diritto unico del lavoro
In quasi tutti i settori produttivi, oggi - nella nostra Repubblica fondata sul lavoro - possono esistere aziende importanti con pochissimi lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato e una enorme massa di lavoratori di serie B, C e D.
Un apartheid che per i giovani significa il dramma dell’insicurezza e la paura del futuro.
Ai lavoratori precari, in particolare giovani, non basta rivolgersi con proposte di ordinaria manutenzione del nostro diritto del lavoro, magari accompagnate da un immediato, forte aumento dei contributi previdenziali.
Bisogna puntare risolutamente al bersaglio grosso, ora, subito. Perché è in gioco il destino di un'intera generazione e perché la Grande recessione ci ha fatto toccare con mano l'intollerabilità etico-politica e l'inefficienza economica di un sistema di diritti e tutele del lavoro così pesantemente discriminatorio verso la sua parte più debole.
Questo è il tempo di una battaglia per l'adozione di un “diritto unico del lavoro”, che possa applicarsi a tutti senza compromettere la competitività delle nostre imprese.
Non si tratta di intaccare o modificare la posizione di chi ha già un rapporto di lavoro stabile. Si tratta di offrire a tutti quelli che si affacciano oggi al mercato del lavoro qualcosa di molto migliore di ciò che il regime di apartheid attuale offre loro.
Si può fare, si deve fare adesso.
6. Un fisco a favore del Quinto Stato, delle donne e della famiglia
Anche a proposito del fisco c’è poco da difendere e molto da cambiare.
L’azione di riforma fiscale deve essere iscritta, pena il suo fallimento, in un contesto di riqualificazione e riduzione della spesa pubblica. Con l’occhio rivolto, al tempo stesso, alla qualità sociale e alla produttività del sistema. Tre esempi basteranno, per dare l’idea.
Il primo: l'allarme è stato di recente rilanciato dal Manifesto del Quinto Stato di ACTA, l'associazione dei lavoratori/partite IVA del terziario avanzato, che denunciano le distorsioni di un sistema fiscale che non riconosce la loro specificità. Il nostro sistema è infatti organizzato solo attorno alle due tradizionali componenti: lavoratori dipendenti e autonomi.
E’ ora che irrompa, per ragioni di giustizia e di equità, questo nuovo soggetto: i lavoratori delle partite Iva, tanta parte del tessuto produttivo italiano.
Il secondo. La risorsa meno valorizzata nel nostro paese è quella rappresentata da milioni di donne giovani, mediamente più istruite e impegnate dei loro coetanei maschi, che vorrebbero lavorare fuori dalle mura domestiche, ma non ci riescono. Al punto che si scoraggiano, specie nel Sud, e smettono addirittura di cercare.
Certo: non c’è la misura di politica economica e fiscale capace da sola di innalzare la partecipazione delle donne alle forze di lavoro: dall’attrazione di investimenti diretti esteri fino alle strutture per la conciliazione, serve un insieme coerente di politiche.
Ma credo che ci sia bisogno di uno shock: a parità di tutto il resto, il reddito da lavoro di una donna, che sia dipendente o autonoma, deve essere tassato con un’aliquota significativamente più bassa di quello, identico, di un lavoratore maschio.
Il terzo. C’è bisogno del pieno riconoscimento della famiglia come soggetto fiscale. Il modo più concreto e corretto per farlo è raccogliere la proposta avanzata dal Forum delle associazioni familiari e che va sotto il nome di “no-tax area familiare”.
Dal prelievo Irpef verrebbe detratta una quota esente per ciascun membro della famiglia. E' una proposta giusta e realista perché può essere adottata progressivamente, a partire dal basso, e non presuppone una immediata modifica di tutto il sistema fiscale.
7. La bellezza è sviluppo
E’ vero, viviamo nella competizione globale, e tutto si può clonare e delocalizzare. Ma non qualcosa che è scritto nell’ identità italiana. E’ ciò che ci ha fatto grandi e amati nel mondo.
Perché prima di essere il paese del Bunga Bunga, noi siamo stati e siamo rispettati all’estero per quello che abbiamo dato all’umanità. Perché siamo una nazione abituata a convivere con la bellezza. Le nostre piccole chiese di provincia che contengono un Piero Della Francesca e le aree archeologiche che si incastrano nei moderni centri cittadini. Da noi si vede il tempo della civiltà umana, tutto intero. E poi siamo la poesia di Dante, la musica di Verdi, la scultura di Michelangelo. Il cinema di Fellini, il teatro di Eduardo, le parole di Elsa Morante. Siamo un talento che non finisce e che esplode dovunque può: nella moda come nell’automobilismo, nell’architettura come nel design. So che oggi è difficile dire quello che sto per dire. Ma tanto più è necessario farlo. Che fortuna essere italiani e che bello è il nostro paese.
Ma tutto questo la politica di oggi lo considera inutile. “La cultura non si mangia”, sia stato detto o no, è la sintesi più felice dell’idea di paese che ha la destra. La cultura si respira e rende la vita di ciascuno più piena. E allora il futuro dell’Italia deve scoprire come vocazione identitaria l’investimento sulla bellezza. E’ lì una quota importante del nostro ruolo nell’economia globale.
Aiutare chi lavora sulla creatività, sostenere un clima di vitale energia e di infinita ricerca. E non c’è bisogno di usare i finanziamenti a pioggia. Opportunità fiscali e innovazione, tanto basta.
Sostenere chi insegna, perché la società moderna è fatta soprattutto, in ogni campo, di buoni maestri. Come avete sentito fino ad ora, si può e si deve spendere di meno su tutto. Tranne che per la scuola, l’Università, la ricerca. Perché il sistema formativo deve diventare il centro della società del futuro. Si deve spendere anche di più, ma si deve spendere meglio. Facendo leva sull’autonomia, il merito, la rigorosa valutazione dei risultati.
E poi la produzione culturale, industria e talento diffuso. E il turismo, che è ricchezza e prestigio.
E l’ambiente, che con il femminismo e internet è stata la vera rivoluzione culturale che ha cambiato il nostro rapporto con la vita e con le persone.
Ma l’ambiente è risorsa di crescita, è lavoro, è ricchezza diffusa.
Il 30 per cento delle Pmi nel 2009 hanno investito sulla green economy (il 45% di quelle che esportano e innovano). Sostenere attraverso crediti d’imposta lo sviluppo di questa filiera innovativa, per esempio consentendole per questa via un più facile accesso alla ricerca, è un investimento sul futuro.
Come lo è la stabilizzazione ed estensione dell’ecobonus del 55 per cento in edilizia. Questa misura ha prodotto, secondo l’Enea, un volume stimato al dicembre 2010 di 11 miliardi di euro per 843 mila interventi.
La nuova frontiera potrebbe essere oggi quella di un piano per la messa in sicurezza antisismica degli edifici, indispensabile per il paese e in grado di mobilitare capitali privati diffusi.
Eccola, l’ Italia nel mondo. La bellezza che si fa ricchezza. Il talento che diventa crescita diffusa.
8. La comunità, forma di convivenza e di organizzazione sociale.
La nostra società non può crescere attorno ad un’idea astratta, teorica, immateriale di individuo, isolato, sovrano ma solo.
Dobbiamo riscoprire tutta la bellezza di una parola: “comunità”. Parlo di una comunità non identitaria, né unita da una particolare dottrina morale o da una sola concezione di che cos’è umano.
Una comunità politica, come suggerisce Ronald Dworkin, non va intesa come una macropersona, un’entità omogenea; ma come un’orchestra, un’entità composta da tanti individui che suonano insieme.
La politica deve riconoscere questa dimensione fondante del nostro vivere civile. E devono farlo i democratici: il riconoscimento che c’è una terza dimensione tra lo Stato e il mercato e tra lo Stato e l’individuo, una dimensione sociale e comunitaria, è anzi una delle ragioni più profonde della diversità dei democratici dalle culture della sinistra del novecento.
L’Italia è ricchissima di comunità, perché l’Italia è innanzi tutto una comunità di comunità. L’Italia è famiglie, territori, municipi, campanili, piccole imprese, cooperative, associazioni, volontariato.
Tra i cambiamenti radicali e forse irreversibili che la crisi globale ci consegna, uno dei più importanti è l’impossibilità di contare solo su risorse pubbliche statali, o per altri versi private di mercato, sia per sostenere lo sviluppo, che far fronte ai nuovi bisogni.
Nessuno può oggi pensare ad una ripresa dell’economia italiana che non faccia leva innanzi tutto sui “piccoli”, su quel fitto tessuto di medie, piccole e piccolissime imprese che sono la principale fonte di reddito, di occupazione, di esportazione del paese.
Un sistema di imprese che da sempre fonda il suo successo su una cultura partecipativa e cooperativa, nella quale l’imprenditore, come dicemmo proprio qui al Lingotto, è egli stesso lavoratore, perché spesso è un ex-operaio e vive faticosamente del suo lavoro.
Ce lo insegnano da più di un secolo migliaia di cooperative, ma ce lo hanno testimoniato di recente i tantissimi piccoli imprenditori che hanno sacrificato non solo il profitto, ma perfino il patrimonio personale pur di non chiudere l’azienda e pur di pagare lo stipendio ai dipendenti, pur di continuare a svolgere la loro funzione sociale, nella loro comunità locale.
Un tessuto così vivo e solidaristico di economia comunitaria va considerato una risorsa preziosa per fronteggiare in modo attivo anche la contraddizione tra la crescita dei bisogni sociali e la crisi fiscale dello Stato.
In Italia, nel 2025, avremo due milioni di anziani in più di oggi. Sull'altro estremo della scala demografica, un ventenne italiano su 5 è ridotto a “non far nulla”. Non studia, non ha un lavoro e non lo cerca attivamente. È di fronte a noi la prospettiva dello “stritolamento” di un’intera generazione.
Come ha scritto Maurizio Ferrera: “il Welfare statale non viene messo in discussione nella sua insostituibile funzione redistributiva, ma deve essere integrato dall'esterno laddove vi sono bisogni e domande non soddisfatte”.
Non il “fai da te”, spesso poco efficace e troppo costoso. Ma il “fare insieme”, attraverso nuovi strumenti di investimento sociale – con incentivi fiscali rivolti alle associazioni e alle organizzazioni no-profit – che agiscano in questa sorta di “secondo Welfare” comunitario.
Campo di applicazione prioritario: gli asili nido e l'assistenza agli anziani non autosufficienti. Due interventi capaci non solo di “fare uguaglianza”, ma anche di favorire la crescita dell'efficienza economica, liberando all'attività produttiva extra domestica la voglia di fare, l'intelligenza e lo spirito di sacrificio di milioni di donne oggi schiacciate dalla squilibrata concentrazione sulle loro spalle delle attività di cura.
Fissato il controllo di qualità e il quadro delle regole da parte della mano pubblica, per il resto sia prioritario il bisogno del cittadino e la società sia libera di esprimere la propria capacità di promozione e di organizzazione. E lo Stato la promuova e la favorisca fiscalmente.
Sussidiarietà, coesione, comunità, territorio. Persone, famiglia, cultura comune. Non avremo risorse per molte politiche statali, dobbiamo quindi puntare di più sulla società “buona”. Perché l’ Italia torni ad essere una comunità, come fu nel suo momento migliore: quello della ricostruzione dopo le macerie della guerra.
9. Diritti, doveri, legalità
Un’idea di comunità così intesa ci consente di mettere insieme i diritti e i doveri, i legami con gli altri e l’autonomia individuale.
Il tema dei diritti è da sempre nel dna dei democratici. Senza la cultura democratica, i diritti umani e civili, dei popoli e degli individui, non avrebbero potuto avanzare come hanno fatto. Per i diritti di ognuno, e in particolare degli ultimi, dei più deboli, degli indifesi, per la libertà religiosa, ci siamo sempre battuti, ci battiamo e ci batteremo. Come contrasteremo ogni forma di discriminazione, compresa quella, purtroppo oggi crescente, basata sugli orientamenti sessuali delle persone.
Penso anche ai diritti degli immigrati: quelli che sono residenti legali nel nostro Paese, che lavorano e pagano le tasse, che formano famiglie e partecipano in tanti modi alla vita della comunità nazionale. A questi immigrati non è riconosciuto alcun diritto politico e spesso anche l’esercizio della libertà religiosa è ostacolato. A loro, ai nostri nuovi cittadini,va assicurato, come abbiamo proposto, un rigoroso percorso di autentica cittadinanza,a cominciare dal voto alle elezioni amministrative.
La lotta per i diritti si è storicamente identificata, in Europa come in America, con la politica democratica. E fatemi salutare con sollievo il fatto che finalmente un uomo di Stato , non per caso il democratico Obama, abbia avuto il coraggio di ricordare alla potente Cina che devono avere un ruolo, insieme alla crescita del pil, i diritti umani e le libertà, a cominciare da quella politica del premio Nobel Liu Xiao Bao e da quella religiosa e civile del Dalai Lama.
Ma il tema dei diritti, per quanto importante per noi, non può essere esclusivo.
Al riconoscimento degli individui da parte della comunità deve corrispondere il riconoscimento della comunità da parte degli individui. Ai diritti devono corrispondere i doveri.
Non c’è bisogno di arrivare fino a Gandhi, quando diceva che “la vera fonte dei diritti è il dovere. Se adempiamo ai nostri doveri, non dovremo andar lontano a cercare i diritti”.
E’ sufficiente, molto più che sufficiente, guardare alla prima parte della nostra Costituzione, a quei principi che affermano diritti e doveri inscindibilmente legati tra loro e fondamento della nostra democrazia.
Ecco il passo in avanti che bisogna fare: non è più possibile pensare che mentre i diritti sono libertà, i doveri sono un obbligo.
Ci sono, semplicemente, quelle norme di volontaria auto-limitazione delle proprie azioni senza le quali la libertà sarebbe selvaggia, e diventerebbe legge della giungla, sopruso e sopraffazione dei moltissimi più deboli da parte dei pochi più forti.
Questo si chiama rispetto della legge. Si chiama legalità.
L’aria che permette a una società di respirare. Un ossigeno che in questi anni c’è mancato. Se la parabola politica di Berlusconi volge al termine, noi dovremo invece fare i conti ancora per molto tempo con i guasti del berlusconismo.
Con le tossine di una “cultura” impregnata di egoismo, di individualismo esasperato, di dispregio dell’identità e della dignità delle donne, di totale subordinazione del bene pubblico agli interessi privati. Di una illegalità diffusa, penetrata come mai nel profondo del nostro tessuto sociale.
Mi vengono in mente alcune parole di qualche anno fa di Antonino Caponnetto: “Certi modi di pensare”, diceva, “sono ormai così diffusi da sembrare normali, ed invece non per questo cessano di essere distorsioni, forme patologiche. Allora la scelta diventa se aderire alla patologia o salvarsene. Reagire”.
E’ questa l’alternativa che abbiamo di fronte. Ed è questo il compito, vorrei dire la missione, alla quale più di altri sono chiamati i democratici.
Reagire, diceva Caponnetto. E allora si tratta per prima cosa di reagire all’idea che le mafie debbano continuare a tenere prigioniere intere aree del nostro Paese. E badate: non stiamo parlando sempre e solo del Sud.
Qualche giorno fa, componenti del clan calabrese dei Macrì sono stati scoperti mentre progettavano l’uccisione di alcuni carabinieri in provincia di Imperia. Il motivo, in base alle intercettazioni? Bisognava dar loro una lezione, perché si stavano “allargando troppo”. A questo siamo arrivati: è lo Stato che si “allarga troppo” quando contrasta, come fanno con coraggio ogni giorno magistrati e forze dell’ordine, la criminalità organizzata.
Reagire, allora, significa colpire le mafie, le organizzazioni criminali, in ciò che hanno di più caro, mirando alle risorse finanziarie, confiscando loro i beni. Significa predisporre strumenti e politiche di controllo più efficaci quando si tratta di opere pubbliche e di appalti. Significa “riprendere il territorio”, per usare un’espressione cara a Don Luigi Ciotti. Significa sostenere lo sviluppo e la modernizzazione del Sud.
Nella pubblica amministrazione regole certe e rigorose in materia di contratti, di acquisti e forniture, di progettazione di lavori pubblici, di reclutamento del personale. E snellimento della burocrazia, perché non ci vuole molto a capire cosa può nascondersi dietro la necessità di un imprenditore di dover bussare a venti porte di venti uffici diversi per avere un permesso.
La politica e le istituzioni devono essere le prime ad assicurare pulizia e trasparenza al loro interno. Va spezzato ogni legame. Va cancellata ogni minima contiguità. Nella scelta dei gruppi dirigenti, al momento delle candidature, non deve succedere che la mafia possa minimamente influire o condizionare. E, per essere chiari, se una forza politica candida un condannato per reati collegati alla mafia deve decadere immediatamente il finanziamento pubblico del partito. Così vediamo.
E ci sono anche possibili meccanismi di autoriforma, se davvero si vuole. Non è che tutto debba per forza essere rimandato all’accertamento della responsabilità penale, cosa che ovviamente resta fondamentale.
C’è una specie di apologo, raccontato una volta da Gian Carlo Caselli, che rende in maniera molto semplice ed efficace ciò che intendo dire. Se chiunque di noi invita a cena qualcuno e poi si accorge che questo qualcuno se ne è andato portandosi via le posate, beh, questo signore lo denunciamo. Ma per non invitarlo più a casa nostra non è che aspettiamo la conclusione del processo. Non lo invitiamo più e basta. La domanda con cui concludeva Caselli era: quanti sono invece nel nostro Paese quelli che, anche se trovati con le posate in tasca, nella vita pubblica continuano ad essere invitati, a sedersi a tavola e a banchettare come se niente fosse?
Il riformismo, l’unica chance.
Come avete visto, non abbiamo parlato, non abbiamo voluto farlo, dei tanti e diversi temi che freneticamente occupano, ogni giorno, il dibattito politico del nostro Paese. In una perenne sensazione di fragilità.
Siamo come intrappolati in un eterno presente senza spessore e prospettiva. La dimensione del progetto non ci appartiene più. La capacità di guardare lontano, di avere una visione, quella che permise alla nuova classe dirigente di rimettere in piedi l’Italia dopo la guerra e poi negli anni successivi di farla crescere e di portare il primo benessere nelle case degli italiani, non è di questo tempo.
Lo sport preferito delle nostri classi dirigenti, e non parlo solo di quella politica, perché purtroppo ogni campo della nostra vita pubblica è colpito dallo stesso male, è rimandare la soluzione di ogni problema sulle spalle dei futuri cittadini. C’è una decisione difficile da prendere? Meglio rinviare. Servono risorse? Utilizziamo quelle disponibili, non importa se in modo sconsiderato e se presto finiranno.
Oggi è così, e domani si vedrà. Anzi: vedranno.
E’ anche da qui, dalla consapevolezza di tutto questo, che passa il disamoramento dei cittadini, dei giovani per primi, per la politica e per tutto ciò che è dimensione pubblica.
E’ su questo crescente distacco che punta e che fa presa quel populismo demagogico che è il cuore, l’essenza del berlusconismo
La democrazia non può essere rinvio, non è scansare i problemi, come faceva don Abbondio con i sassi che incontrava sulla strada.
La democrazia è decisione. Partecipata, ma decisione. Perché la democrazia è responsabilità. E la politica democratica è costruzione del consenso attorno alle scelte più giuste, perché lungimiranti.
Non c’è niente di più pericoloso, per la democrazia, del divorzio tra decisione e partecipazione: uno dei segni più inquietanti del nostro tempo. E il riformismo, che sfida conservatorismi e privilegi, più di ogni altro ha bisogno di democrazia che decida.
Solo pochi anni fa, sembrava che l’onda democratica, che stava travolgendo i regimi totalitari e autoritari di tutto il mondo, fosse una forza inarrestabile.
Oggi dobbiamo essere più cauti: la democrazia fatica a farsi strada in metà della popolazione mondiale. Si affermano modelli che sono definiti con un ossimoro: democrazia autoritaria.
Si va diffondendo l’idea che la democrazia è un ostacolo alla decisione veloce. E poiché la velocità è una risorsa strategica del nostro tempo, se si deve scegliere tra la decisione veloce e la democrazia, il rischio è che si sacrifichi la democrazia.
Ne aveva parlato, con profetica lucidità, Piero Calamandrei, in un intervento alla Costituente: “La democrazia per funzionare deve avere un governo stabile. Se un regime democratico non riesce a darsi un governo che governi, esso è condannato. Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall’impossibilità di governare dei governi democratici”.
Le istituzioni devono poter governare, devono poter decidere. Ed è al principio della democrazia partecipata e decidente che devono ispirarsi le necessarie riforme istituzionali ed elettorali che l’Italia attende da lungo tempo: rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento, regolazione del conflitto d’interessi, norme contro la concentrazione del potere mediatico e il controllo politico della Rai, differenziazione delle camere e riduzione del numero dei parlamentari.
Sulla legge elettorale, condividiamo e sosteniamo l’impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali, scelto dall’Assemblea nazionale del Pd.
I rimedi istituzionali alla crisi della politica democratica sono necessari e importanti.
Ma la soluzione, non smetterò mai di esserne convinto, è anche nella bellezza della politica.
E’ la politica che ha cambiato il mondo. E’ la politica che ha segnato gran parte del cammino dell’umanità. Cammino che ha avuto cadute e ha conosciuto orrori, ma che è stato contrassegnato da un continuo progresso e da conquiste gigantesche.
E’ la politica che ha contribuito alla diffusione di libertà e benessere, quando prima libertà e benessere erano privilegio di pochi. E’ la politica che ha dato diritti e dignità ai lavoratori, gli stessi che prima erano costretti a togliersi il cappello di fronte al padrone. E’ la politica che ha abbattuto i muri della discriminazione razziale e dello scontro ideologico che teneva in sospeso il destino del mondo.
E’ la politica che ha fatto vivere meglio e può far vivere meglio le persone.
Ad una condizione: che sia sfida, che sia coraggio di fronte alle novità, che sia non immobilismo, non perenne attracco in porti solo apparentemente sicuri, ma viaggio, capacità di affrontare senza paura il mare aperto.
“Tra vent’anni”, scriveva Mark Twain, “sarete più delusi per le cose che non avete fatto che per quelle che avete fatto. Quindi mollate le cime. Allontanatevi dal porto sicuro. Prendete con le vostre vele i venti. Esplorate. Sognate. Scoprite”.
Ora, davvero, l’ Italia può girare pagina. Deve farlo, con urgenza. Perché un giovane su cinque non ha lavoro e non crede di trovarlo, perché al Sud sono povere due famiglie su dieci. Perché la metà delle donne è senza lavoro. E il governo si occupa solo del destino del suo leader.
Usciamo insieme da questa paralisi pericolosa. Le stesse persone più avvedute del centro destra non vedono l’ora che finisca. Saranno giorni difficili ,perché Berlusconi non ha alcuna idea di cosa significhi senso dello stato.
Anche per questo io penso che ,in questa delicata fase della vita parlamentare, le forze di opposizione dovrebbero trovare più stabili forme di coordinamento e di consultazione che, nel rispetto dell’autonomia di ciascuno e senza prefigurare alcunché, consentano di evitare forzature o violazioni del ruolo del Parlamento. E mostrino, tutta intera, la forza delle opposizioni.
Se in Berlusconi, per una volta, prevalesse l’interesse del paese e si dimettesse si aprirebbe, comunque, una fase nuova. E le opposizioni dovrebbero registrarlo.
Se il governo passasse la mano ci sono tre soluzioni.
Una non è ovviamente nelle nostre disponibilità: è un nuovo governo con la maggioranza attuale, o più estesa, e un nuovo premier. In questo caso si potrebbe creare un clima di più civile confronto e di maggiore serenità.
Le soluzioni che possono riguardare il Pd sono due. Io vorrei indicare la mie priorità.
Resto convinto della proposta che nelle settimane passate tutto il partito ha avanzato e che io credo sia giusto rilanciare oggi.
Un nuovo governo, non un ribaltone, che comprenda tutte le forze parlamentari, con un premier che sappia garantire un clima istituzionale nuovo. Un governo che si proponga di rasserenare la situazione, fronteggi le emergenze sociali e finanziarie, riformi immediatamente la orrenda legge elettorale. In questo contesto, e in un clima più sereno e ascoltando le proposte migliorative delle autonomie, si potrebbe portare a compimento l’iter del federalismo, oggi messo a rischio dal clima di scontro in atto.
Credo che questo, in altri paesi, farebbero forze politiche non egoiste, non dominate dalla furbizie tattiche. Forze che poi, in un clima repubblicano, tornerebbero a dividersi, in un bipolarismo maturo.
In questi mesi ho sostenuto che andare a votare in questo clima e con questa legge elettorale sarebbe la peggiore delle soluzioni. E lo confermo. Ce n’è una soltanto di soluzione ancora peggiore: la livida prosecuzione di un governo al tempo stesso inesistente e pericoloso, con un ulteriore imbarbarimento della situazione nazionale.
In questo caso si, credo che le opposizioni, unite, dovrebbero chiedere le elezioni.
Ma sarebbero elezioni che non si possono perdere, pena rischi gravi per l’ Italia. Per questo solo un appello voglio rivolgere a tutti noi. Non si ripeta mai più il tragico errore del ’94. Quando le divisioni nel campo democratico spianarono la strada all’avventura berlusconiana.
Bisogna girare pagina e cominciare un nuovo ciclo della politica italiana.
E la parola chiave deve essere cambiamento.
Una società aperta, dinamica, tesa a costruire opportunità e qualità sociale.
Un nuovo ciclo. Che ha bisogno , per realizzarsi, delle condizioni istituzionali e politiche necessarie.
Voglio dirlo chiaramente, non si può cambiare un paese come l’Italia senza un vero, nuovo bipolarismo.
Quello vero, non il prodotto della conflitto statico tra berlusconismo e antiberlusconismo. No, il bipolarismo europeo.
A quello dobbiamo tendere , senza nostalgie ingiustificate.
E’ avanti che dobbiamo guardare. Non si può tornare indietro, ad un sistema partitico e proporzionale che era quello dei cinquantatre governi in cinquant’anni di storia repubblicana e di un debito pubblico che definire abissale è poco. L’Italia delle stragi di Brescia e Bologna, dei depistaggi sulle inchieste che cercavano la verità. L’Italia delle trame eversive e della P2. Un mondo che ha generato instabilità e debito pubblico. Due cose che, con i vincoli europei, oggi non sono immaginabili.
Finita questa fase di emergenza e superato il berlusconismo, potremo finalmente entrare in Europa anche dal punto di vista politico. Noi abbiamo interesse ad un bipolarismo che sia il confronto tra una destra moderata e un centrosinistra riformista.
Perché l’alternativa vera non è, non deve essere, tra populismo ed estremismo, ma tra conservatori e riformisti.
Insomma penso che, superata la transizione, sarebbe naturale che in Italia nascesse un nuovo centrodestra, ispirato a culture liberali e forte senso dello Stato. Ciò che in Inghilterra è Cameron.
Così come penso che il nostro compito storico sia fare il centrosinistra riformista in Italia.
E il tempo successivo al fallimento del berlusconismo può e deve essere il nostro tempo.
La condizione fondamentale è che noi ribadiamo senza equivoci la nostra identità. Noi siamo un partito di centrosinistra. Noi siamo i democratici italiani nati per dare al paese quel ciclo riformista che non ha mai conosciuto. Noi siamo il cambiamento, l’innovazione.
Questa è un’epoca in cui di fronte alle sfide non ci si può sottrarre. E nemmeno si può pensare di calarsi l’elmetto e mettersi nella propria ridotta a difendere ciò che esiste e si conosce. E mi colpisce che questo sia in certe circostanze ancora un riflesso presente alla nostra sinistra.
Si, perché esiste un’area alla nostra sinistra. E non bisogna temere che ciò accada. Noi siamo una forza democratica, di centrosinistra che, come tutte le forze riformiste, può trovare alleanze anche con chi ha posizioni diverse. Non dico posizioni più radicali perché penso che nessuno debba essere più radicale nel cercare il cambiamento dei riformisti.
Lo dico al mio amico Nichi Vendola, la cui sfida va seguita non con ostilità e paura ma con rispetto e interesse. Lo dico come si fa tra chi vuole sinceramente andare verso un incontro. Ma ad una condizione. Che si costruisca, questo incontro, per rispondere davvero ad un bisogno di stabilità e di cambiamento. Ogni riedizione dell’Unione sarebbe un suicidio politico.
Per questo non mi ha convinto la definizione della proposta di Marchionne, poi approvata dalla maggioranza dei lavoratori, addirittura come una delle pagine più nere della democrazia italiana. E aggiungo che non è definendolo, con una scivolata retorica, un “eroe” alla pari di Falcone , che si rende giustizia a una vittima come Carlo Giuliani.
Le nostre diversità devono coniugarsi ad una sincera intenzione. Non cercare di sottrarre consenso l’uno all’altro ma estendere quello sociale e politico di un nuovo centrosinistra possibile, che non ripeta gli errori del ’94 , quelli della caduta di Prodi e quelli dell’Unione.
In Italia può vincere una alleanza di centrosinistra. E’ molto più difficile che possa farlo una intesa esclusivamente di sinistra.
Il Partito Democratico, da parte sua, ha innanzitutto il compito di riprendere il suo cammino, recuperando la direzione di marcia che gli aveva consentito di guadagnare un consenso mai raggiunto, nella storia, dai riformisti italiani.
Un partito di centrosinistra. Ambizioso perché consapevole che se i sondaggi oggi gli attribuiscono il 24% altre rilevazioni dicono che siamo il partito con il più alto elettorato potenziale: oltre il 42 %. Ambizioso e convinto di poter parlare a tutti gli italiani forte delle sue idee e con un solo linguaggio, senza una suddivisione di compiti tra riformisti di centro e riformisti di sinistra destinati a ritrovarsi esclusivamente in un’alleanza di governo.
Questa, e non altro, non le rappresentazioni che ne sono state fatte, a volte sbagliando in modo voluto e pretestuoso, era ed è la “vocazione maggioritaria” del Partito Democratico.
E voglio dirlo con estrema chiarezza: senza questa vocazione, e senza il bipolarismo, il Partito Democratico non sarebbe se stesso.
Se invece saremo questo, allora anche le alleanze verranno. Verranno da sé. Sarà la forza delle nostre proposte, del nostro programma, ad attrarre chi diventerà nostro alleato. Non saremo noi a rincorrere chi magari poi, alla fine, ci direbbe no.
Riusciremo se romperemo steccati e allargheremo lo sguardo, se torneremo a parlare a quelle persone moderate e civili che chiedono modernizzazione, che sono deluse da questo governo pur avendolo votato e che magari tre anni fa avevano cominciato ad osservarci in modo diverso, pur non scegliendoci ancora. Se toglieremo voti moderati alla destra, se ridaremo fiducia a coloro che vogliono astenersi.
Fuori dal novecento. Anche smettendola di sentirsi ex di qualcosa che, quale che sia, è finito venti anni fa. Fuori dalle ideologie, fuori dagli “ismi” che tutto giustificano. E, se posso dirlo, fuori anche dalle autocertificazioni che assolvono. Non basta dichiararsi di sinistra o democratici e poi avere comportamenti, ad esempio, non coerenti sul piano della legalità e del contrasto di ogni forma di spregiudicata ricerca del consenso elettorale. Almeno questo dobbiamo a Pio La Torre e a Piersanti Mattarella e ai tanti nostri amministratori che, rischiando, combattono l’illegalità.
Essere democratici non è il minimo comun denominatore di culture più forti ma oggi non declinabili. No, essere democratici in Italia significa essere l’incarnazione di quel riformismo che ha cambiato il mondo. Perché le uniche rivoluzioni che non siano finite con la riduzione della libertà sono le rivoluzioni democratiche. Come la Resistenza italiana, come la liberazione dai regimi comunisti o dei colon
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