«Il Pd senza idee favorisce Berlusconi"
Giorgio Tonini, "L'Adige", 26 gennaio 2011
La scorsa settimana ho partecipato ad un affollato incontro promosso dal circolo Pd di Mattarello sullo «smarrimento» della politica. Molti dei partecipanti si sono dichiarati delusi dalle mie parole, nelle quali hanno trovato più domande che risposte.
La cosa mi ha fatto soffrire e riflettere, dubitare sul mio modo di argomentare, ma non mi ha fatto cambiare idea sul punto fondamentale. Che è questo: io penso che noi democratici abbiamo tutte le ragioni del mondo per criticare l'insufficienza del governo e sentirci indignati dal comportamento di Berlusconi, che mina alle fondamenta la tenuta della democrazia e la dignità dell'Italia nel mondo. Ma penso anche che non riusciremo a batterlo, né in Parlamento né tra gli elettori, fino a quando non saremo in grado di proporre agli italiani una concreta e credibile alternativa di governo.
I sondaggi usciti in questi giorni ne sono l'ennesima riprova: neppure le circostanziate accuse di concussione (la famosa telefonata alla Questura di Milano, in favore della «nipote di Mubarak») e di prostituzione minorile (un'accusa inaudita, dinanzi alla quale nessun capo di governo di un paese democratico sarebbe potuto restare al suo posto un minuto di più), e neppure, più in generale, l'evidenza di uno stile di vita del premier contrario a ogni più permissiva concezione della pubblica decenza, sembrano aver scalfito la maggioranza relativa di consensi, della quale Berlusconi gode tra gli elettori.
Le ragioni di questa tenace inamovibilità mi paiono fondamentalmente due. La prima ha a che fare con il Pdl, che non è un «partito», ma un «popolo», riunito attorno al suo leader, secondo un modello più populista che liberale. Il modello populista, al contrario di quello liberale, non contempla la sostituzione del leader, in quanto egli è l'incarnazione dello spirito del popolo. I conservatori inglesi hanno potuto fare a meno di Churchill e della Thatcher: i leader sono passati, il partito è rimasto. La stessa Dc è sopravvissuta quarant'anni alla morte di Degasperi. È stato difficile invece far sopravvivere il peronismo a Peron, così come il berlusconismo a Berlusconi. E infatti, quasi tutti i dirigenti del Pdl si stringono attorno al Cavaliere, perché non possono immaginare un loro futuro senza di lui. A tu per tu, ammettono il loro imbarazzo, ma confessano di sentirsi senza alternative. Perfino la Lega è prigioniera di questa trappola. La seconda ragione dell'inamovibilità di Berlusconi ha invece a che fare con noi, con il Partito democratico, con il centrosinistra. Il Cavaliere resterà dov'è, fino a quando dall'opposizione non emergerà una convincente e vincente alternativa di governo. Che è qualcosa di assai di più e di diverso da un semplice cartello di forze «contro» Berlusconi.
Oggi questa alternativa ancora non c'è. Anche perché il Pd si è per troppo tempo illuso che potesse essere un sistema di alleanze a surrogare la mancanza della proposta. Il risultato è che al momento non abbiamo né la proposta, né le alleanze. Siccome non basta denunciare questo limite, ma bisogna cercare di porvi rimedio, ci siamo «rimboccati le maniche». E da Torino, dal convegno della minoranza interna al Pd, che si è riunita sabato scorso al Lingotto, attraverso la relazione di Walter Veltroni, è arrivato un contributo a me pare serio e robusto e quindi utile. Lo ha giudicato tale lo stesso segretario Bersani: e questo fa ben sperare in una ritrovata unità del Pd, attorno non ad un minimo (e quindi insufficiente), ma ad un massimo comune denominatore, qualcosa che riesca a smuovere i rapporti di forza nel paese. La visione che Veltroni ha proposto al Lingotto si può riassumere così. Primo: l'Italia oggi si trova tra i paesi deboli d'Europa, perché non ha saputo mantenere i due impegni che aveva preso con se stessa e con gli altri paesi, al momento dell'ingresso nell'Euro, ovvero la forte e rapida riduzione del debito pubblico e la capacità di competere sui mercati facendo crescere la produttività, non potendo più usare la svalutazione. Il fallimento di entrambi gli impegni rende precaria la nostra condizione economica e sociale e concreta la prospettiva del declino.
Secondo: l'Italia dispone di tutte le risorse necessarie ad affrontare in modo risolutivo entrambi questi ritardi. La condizione per farcela è riscoprire uno spirito di comunità nazionale e il senso del dovere, accanto ai diritti. E scegliere una politica che affronti i problemi e non tiri a campare. L'esempio ce l'hanno dato i tedeschi, con il governo rosso-verde di Schroeder e Fischer, che dieci anni fa seppe mettere in campo la famosa Agenda 2010, un robusto pacchetto di riforme economiche e sociali, che oggi hanno consentito alla Germania di uscire dalla crisi più forte di come vi era entrata. Il centrosinistra deve proporre agli italiani una Agenda 2020, che faccia tornare l'Italia tra i paesi forti d'Europa, restituendo speranza in particolare ai giovani, che oggi vedono chiuso e buio il loro futuro.
Terzo: l'Agenda 2020 deve vedere un impegno di tutte le componenti della società italiana, secondo uno spirito che potremmo definire di «interclassismo dinamico». È stato giusto chiedere agli operai della Fiat un di più di fatica per difendere la presenza dell'industria nel nostro paese. Ma un analogo impegno va chiesto ai dipendenti pubblici, perché in tutti i settori bisogna imparare a fare «meglio con meno», cioè a dare servizi migliori spendendo meno soldi dei contribuenti. Ai manager va chiesto di legare i loro emolumenti ai risultati produttivi dell'azienda, più che agli indici di borsa. A quel 10 per cento degli italiani che dispone di quasi la metà della ricchezza patrimoniale del paese è giusto chiedere un contributo straordinario per liberare l'Italia dalla morsa del debito che la sta soffocando. E un taglio netto va dato ai costi della politica e ai privilegi dei politici.
Al berlusconismo morente, che scommette cinicamente sulla rassegnazione degli italiani, il Pd deve rispondere insomma rilanciando la speranza e la fiducia negli italiani, nella loro capacità e volontà di rispondere positivamente alla chiamata esigente di una politica riformista e non populista, che non cerca l'applauso immediato, ma il consenso maturo e responsabile. Come seppe fare Degasperi negli anni della ricostruzione dopo la guerra. Come ha saputo fare l'Ulivo di Prodi e Ciampi, quando ha unito il paese attorno all'obiettivo dell'Euro. Solo così potremo trovare la via, oltre lo smarrimento presente.