ANDREATTA: «Il Pd? Serve più cuore"
Quando una nave è in difficoltà, è doveroso accorrere in soccorso di chi si trova ai comandi. Adoperarsi insieme per ritrovare la rotta e poi, quando le falle sono state tappate, cercare di capire cosa non ha funzionato.
Alessandro Andreatta, "L'Adige", 27 novembre 2010
Purtroppo non è questo quello che sta accadendo al Partito democratico nazionale, minacciato non tanto dalla concorrenza al centro e a sinistra, ma da una mancanza di coesione interna che si sta rivelando rovinosa.
L'editoriale del direttore Giovanetti ha dunque toccato un nervo scoperto: è vero, il Pd ha deluso e, forse, non poteva essere altrimenti, visto che era stato caricato di tante, troppe aspettative. Però, da militante, da primo sindaco pd di Trento, non posso assumere il punto di vista distaccato e impietoso del direttore dell'Adige. Innanzitutto perché dentro alla difficoltà del partito democratico ci sono anch'io, insieme a tutti gli eletti, ai militanti e ai simpatizzanti.
E poi perché, se al giornalista spetta la critica, io non posso esimermi dall'affiancare all'analisi della situazione anche una qualche proposta.
È vero, il partito democratico sembra spesso incapace di parlare a quest'Italia. Paradossalmente, è afasico proprio in un momento in cui c'è un bisogno assoluto di sentire una parola chiara sulla situazione politica e sociale che stiamo vivendo. Eppure non è che il Pd non abbia nulla da dire. Se solo mettiamo il naso in qualche riunione di partito, se solo andiamo a cliccare il sito internet www.partitodemocratico.it, troviamo un gran numero di ottime idee: sul lavoro, l'università, la ricerca, gli immigrati, la crisi economica, i precari. Però c'è un problema: chi racconta questi progetti ai nostri elettori e a tutti i cittadini? Chi si assume il compito di interpretare pubblicamente le contraddizioni del nostro tempo e di indicare le soluzioni?
Mi pare che questo compito eminentemente politico trovi pochi adepti. Anche gli amministratori (me compreso) trovano sempre meno occasioni per dedicarsi a temi generali, perché pressati da mille questioni particolari, che naturalmente meritano la massima attenzione. Ecco che allora dovremmo tutti ritrovare il tempo e il modo per dire la nostra su quel che accade. E non solo in tv, in qualche talk show, non solo nelle assemblee elettive, non solo nei pur preziosissimi giornali, ma tra la gente, al mercato, negli incontri pubblici. Al dovere di raccontare il nostro paese se ne aggiunge un altro: quello della testimonianza.
Il Pd è il partito della giustizia sociale, dell'inclusione, dell'ecologia, del merito, della legalità. Per questo io credo che il Pd dovrebbe essere presente ovunque questi valori vengono calpestati. Sotto le gru dove gli immigrati, seppure in forme estreme, denunciano una legge - la Bossi-Fini - che spinge nell'illegalità anche i lavoratori onesti. Oppure a Pollica, dove il sindaco Angelo Vassallo ha pagato con la vita l'opposizione alla criminalità organizzata. Oppure a Napoli, tra i cittadini che vivono in mezzo a rifiuti, puzza e percolato. O in Veneto, dove lo Stato ci ha impiegato quattro giorni ad accorgersi di un'alluvione che ha travolto intere città. O tra i disoccupati che crescono ovunque, anche in Trentino.
L'antidoto alle divisioni interne non può che essere quello di tornare ad occuparsi dei problemi del nostro paese: di fronte a una fabbrica che chiude o a una madre che lascia il lavoro perché non trova un posto all'asilo nido, anche la contrapposizione tra «rottamatori» e veterani della politica, anche la solita, vecchia dicotomia tra dalemiani e veltroniani sono destinate a perdere importanza e significato. L'ultima questione che mi sta a cuore è quella dell'appartenenza. Qualcuno dice che il problema del Pd nasce dall'impossibilità di saldare le due culture, quella del cattolicesimo sociale e quella della sinistra democratica, che sono state le principali azioniste della nuova formazione. Mi permetto di dissentire. Semmai il problema è stato quello di voler creare un'omogeneità di facciata tra ex Margherita ed ex Ds, di tagliare le importanti radici locali dei due vecchi partiti, salvo poi enfatizzare dietro le quinte le differenze. Come se non esistesse la possibilità di un partito plurale alla luce del sole (vedi i Democratici in America o i Laburisti in Gran Bretagna), come se non fosse possibile coltivare un'appartenenza comune senza rinunciare alle pur legittime differenze.
C'è una bella canzone di Gaber che dice più o meno così: «L'appartenenza non è un insieme casuale di persone, non è il consenso a un'apparente aggregazione, l'appartenenza è avere gli altri dentro di sé». Io credo che tutti noi che abbiamo avuto il privilegio di essere eletti, dal segretario nazionale all'ultimo consigliere circoscrizionale, dovremmo avere un po' di più il pd nel cuore. Se non altro, per diventare meno cinici.