Alberto Pacher, "L'Adige", 23 novembre 2010 Caro direttore, ho seguito il dibattito che nelle ultime settimane, a partire dalla sua riflessione, si è sviluppato a proposito delle difficoltà che oggi il Pd sta attraversando. Comprendo, e in parte condivido, lo smarrimento che molti provano nel constatare come di fronte a una crisi politica, economica e civile grave, il mio partito faccia così fatica a porsi come un punto di riferimento stabile per una vera alternativa.
Comprendo e condivido la preoccupazione che deriva dal non vedere una chiara definizione della strada da seguire, delle cose da fare, del come farle. Eppure il Pd era ed è nato proprio per questo, per costruire un contenitore in cui le culture politiche più significative del '900 potessero dare vita a una nuova proposta, a nuovi valori capaci di tenere il passo con i rapidi mutamenti sociali, culturali ed economici che caratterizzano questa fase della Storia. Capace di favorire il superamento della frammentazione politica che da sempre caratterizza il nostro Paese, riproducendone peraltro in maniera speculare la frammentazione civile. Voleva essere, il Pd - e per molti è ancora - uno strumento politico adatto a un Paese capace di riscatto, di sintesi dei diversi interessi, capace di fare comunità. Forse molti di noi, a partire dal primo segretario Walter Veltroni, avevano del tutto sottovalutato le resistenze che un simile progetto avrebbe incontrato e suscitato, persino al nostro interno. Ricordiamo tutti come dopo le elezioni politiche del 2008 ci fu chi, a pochi mesi dalla nascita, sancì in maniera definitiva che il progetto era fallito o comunque da rivedere. Ma davvero qualcuno aveva creduto che un progetto del genere potesse avere compimento in pochi mesi o in pochi anni? Che una trasformazione politica di questo livello potesse agire nei tempi sincopati della politica di oggi? Anche in questo caso hanno agito, anche all'interno del Pd stesso, le logiche di breve periodo, quelle della politica scandita dai ritmi dell'informazione. Oggi viviamo una fase in cui lo scenario è sempre più affollato di proposte politiche «pret a porter», - e qualche esempio lo abbiamo anche qui da noi - la cui aspettativa di vita è spesso pari o inferiore a quella dei vari modelli di iPod. Oggi c'è chi sancisce la fine auspicata del modello maggioritario a favore di un ritorno a un sistema proporzionale che, vale la pena di ricordarlo, ha garantito in passato 40 anni di governi frammentati e debolissimi, con forze politiche di assoluta leggerezza capaci però di decidere le sorti del governo e quindi con sproporzionati poteri di ricatto. Oggi anche le Repubbliche, seconde o terze che siano, hanno prospettive di vita da beni di consumo. Ma, si dice, il Paese è frammentato (anzi, «è animato da sensibilità diverse!») e quindi bisogna avanzare una proposta politica capace di intercettare queste sensibilità. Ma siamo davvero sicuri che la politica sia proprio destinata ad abdicare a qualsiasi forma di «pedagogia civile», al coraggio di tracciare una strada anche se questa richiederà del tempo per affermarsi? Ma siamo davvero sicuri che il volere «della gente» (una vera, rinata sinistra, il grande centro, la destra autentica…) sia proprio della gente e non magari una sorta di proiezione delle sclerotizzazioni politiche e ideali dei ceti politici? Ma siamo davvero sicuri che ad una trentenne qualsiasi, sia essa ricercatrice del Cnr o addetta in un call center importi qualcosa della nostra residuale geografia politica? E parlo di trentenni, non di adolescenti, di quella fascia di età che in ogni Paese rappresenta la forza più dinamica dell'oggi. Come già accaduto altre volte nel nostro Paese, abbiamo avviato una rivoluzione senza poi trovare la forza di portarla sino in fondo. La politica del nostro Paese si è lasciata risucchiare, essendone in parte complice, nella terribile involuzione civile che stiamo vivendo, nella strutturale incapacità di elaborare il proprio passato che, proprio per questa mancata elaborazione, non passa mai. Solo nel nostro Paese a qualcuno poteva venire in mente, essendo anche preso sul serio dalla politica e dall'informazione, di inserire nel Festival di Sanremo «Giovinezza» e «Bella Ciao»! Sono certo che se qualcuno avesse proposto qualcosa di analogo in un qualsiasi Paese europeo (chessò, le canzoni delle due parti della guerra civile in Spagna) sarebbe stato, nel migliore dei casi, considerato come un palese caso di disadattamento politico e, forse, personale. Qui stanno le difficoltà di oggi del «progetto Pd», assieme a un generale affaticamento delle leadership. Il Pd fatica perché il Paese che aveva come riferimento fatica, perché il modello di Repubblica per cui era stato pensato fatica. Poi, naturalmente, ci sono le tante personali e collettive responsabilità di noi dirigenti politici locali e nazionali. Eppure io credo che questa idea di Pd sia ancora uno dei pochi tentativi agiti nel nostro Paese per favorirne la ricomposizione, per farne crescere l'identità e la civiltà. Per aiutare la ripresa di quel senso di responsabilità di cui oggi si avverte in maniera dolorosa la debolezza o la mancanza. Credo che la proposta di un Paese «normalmente» bipolare fosse e sia ancora una strada per recuperare anche la dimensione educativa della politica: una politica che non insegue, appiattendosi sulle paure, le differenze, le incomunicabilità dell'oggi, ma anticipa ed indica la strada e propone i tempi di marcia senza farseli imporre dalle esigenze di palinsesto. Ecco, credo che sia per questa politica che molti giovani si sono affacciati sulla scena approfittando della finestra aperta dal Pd. Credo che per questa politica valga la pena di impegnarsi.
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