Giorgio Tonini, "L'Adige", 14 novembre 2010 Ha ragione da vendere, il direttore dell'Adige, quando scrive, come ha fatto domenica scorsa, che la politica italiana è impantanata da mesi in una guerra nel fango che sta paralizzando il Paese.
La responsabilità di questo stato di cose è innanzi tutto della maggioranza di governo, che solo due anni e mezzo fa aveva avuto dagli italiani (con l'aiuto della legge elettorale) la più ampia base parlamentare della storia della Repubblica e oggi è ridotta un cumulo di macerie. Un immenso patrimonio di consenso è stato dilapidato da un presidente del Consiglio che si è rivelato un leader inadatto al governo: innanzi tutto per il suo essere una persona umanamente corrotta al di là dell'immaginabile e del tollerabile. Ma anche e soprattutto per aver fondato il suo rapporto col Paese sulla malapianta del populismo, che promette cieli azzurri per tutti, per di più senza fatica, e va quindi in crisi quando arriva la pioggia. È così andata perduta una grande occasione per governare e riformare l'Italia, mettendola in grado di affrontare, unita e solidale, le gigantesche sfide di un tempo difficile come il nostro. Non si può tuttavia non essere d'accordo col direttore Giovanetti, anche quando aggiunge che la situazione del Paese è resa ancor più grave dal fatto che il centrosinistra, e in primo luogo il Pd, non è in grado, almeno al momento, di porsi come una credibile alternativa di governo: la crisi politica italiana rischia così di essere non solo una crisi di governo e neppure solo la crisi di una maggioranza, ma la crisi di un sistema e di un intero Paese. Personalmente, condivido anche buona parte dell'analisi che Giovanetti propone circa le cause della crisi del Pd. Pur senza dimenticare le difficoltà che attraversano oggi tutti i partiti riformisti e progressisti d'Europa, è indubbio che il Pd non solo non ha tratto giovamento, ma ha visto complicarsi i suoi problemi, quando ha accettato di cambiare il modo di intendere la sua funzione storico-politica: nella fase originaria era la cosiddetta «vocazione maggioritaria», ovvero la chiamata a raccolta di tutti i riformisti, in un partito davvero «nuovo» (che percepisse se stesso come il compimento dell'Ulivo più che l'erede dei partiti della Prima Repubblica) e attorno ad un programma di cambiamento del Paese coraggiosamente innovativo, come quello proposto da Veltroni al Lingotto; successivamente è diventata soprattutto la costruzione di una nuova alleanza di centro-sinistra, da Vendola e Di Pietro fino a Casini. Quella che doveva essere una scorciatoia, per tornare al governo senza diventare maggioranza nel Paese (e quindi saltando la «traversata nel deserto» del ripensamento sincero e serio, dunque faticoso e doloroso, della propria cultura politica e delle proprie proposte programmatiche), si è tuttavia rivelata un vicolo cieco. Perché un'alleanza lunga ed eterogenea è esattamente il contrario di una proposta di governo. E senza una proposta di governo è difficile vincere le elezioni e dunque anche trovare alleati, in particolare al centro. E infatti, il Pd si trova oggi a subire la pericolosa concorrenza a sinistra di Vendola e Di Pietro, mentre si fa sempre più chiaro che il declino del Cavaliere spinge Casini a prendere parte, insieme a Fini, alla guerra di successione per la guida del centrodestra. In ogni caso, è diventato chiaro che le alleanze a sinistra e quelle al centro non sono sommabili: e se il Pd dovesse decidere domattina quali preferire, si troverebbe di fronte a una scelta a dir poco lacerante. Di fronte alla evidente, conclamata attuale inadeguatezza di entrambi i poli e alla debolezza del cosiddetto «terzo polo», che per il momento sembra poter svolgere solo un ruolo di interdizione, si staglia in tutta la sua minacciosa imponenza, la straordinaria difficoltà del passaggio storico nel quale si trova il nostro Paese. La crisi finanziaria del 2008 e la grande recessione del 2009 hanno messo sotto pressione le economie europee, rendendo evidente come la moneta comune non possa sopportare divari troppo ampi tra i diversi paesi, sia sul versante della finanza pubblica (deficit e debito), sia su quello dell'economia reale (crescita, occupazione, produttività, competitività). In particolare dopo la crisi greca, si è resa dunque necessaria ed urgente una nuova governance economica europea, fondata su un ulteriore, significativo trasferimento di sovranità dagli Stati all'Unione, quale quello che, su spinta determinante della Germania, presente Berlusconi, è stato deciso dal Consiglio Europeo del 28 e 29 ottobre scorsi. In pratica, dal 2011 (cioè da subito) le manovre finanziarie ed economiche di ogni Stato membro dovranno essere impostate sulla base di criteri comuni e approvate preventivamente in sede comunitaria nel corso del primo semestre dell'anno (il cosiddetto «semestre europeo»). Ogni governo dovrà sottoporre al vaglio di Bruxelles, entro la metà di aprile di ogni anno, il piano di stabilità (finanziaria) e quello di riforme (macroeconomiche), che nel secondo semestre intende far approvare dal proprio Parlamento. Si tratta, come è evidente, di un'ottima notizia per l'Europa: accanto alla gamba dell'Unione monetaria, sta finalmente crescendo quella dell'Unione economica, anche se è una gamba per il momento più «intergovernativa» che comunitaria. Ma anche di una drammatica sfida per l'Italia, che dovrà finalmente decidersi ad onorare gli impegni che aveva solennemente preso con se stessa e con gli altri paesi europei, quando aveva deciso di entrare nell'Euro. A cominciare dai due più importanti: il rientro dal debito e l'aumento della produttività. Entro aprile dobbiamo presentare a Bruxelles il nostro Piano nazionale di riforme, per innalzare la produttività totale del sistema e tornare competitivi, insieme al Piano di stabilità, col quale dobbiamo cominciare a ridurre in modo significativo il nostro debito pubblico: sul quanto ridurlo, la trattativa è in corso, ma la proposta di partenza della Commissione europea assegna all'Italia una riduzione annua di circa 45 miliardi di euro. Una enormità. Può darsi che ci facciano uno sconto, ma la bolletta sarà comunque salatissima, impossibile da pagare senza metter mano a interventi straordinari nell'immediato (dalla vendita di patrimonio pubblico alla tassazione una tantum dei grandi patrimoni privati) e a riforme profonde della nostra spesa pubblica, quali non abbiamo mai visto e che dovranno necessariamente investire i capitoli fondamentali: previdenza, sanità, pubblico impiego, istruzione. È del tutto evidente che, allo stato attuale delle cose, non c'è in parlamento una maggioranza politica che sia in grado, da sola, di affrontare una sfida di questa portata. Non è in grado di farlo il centrodestra, dilaniato da una feroce guerra di successione a Berlusconi. Non è in grado di farlo, purtroppo, neppure il centrosinistra, che almeno lo riconosce. Ed è altrettanto evidente che, stante l'attuale offerta politica, il problema non si risolverebbe neppure tornando al voto, per il quale, oltretutto, manca il tempo, se vogliamo onorare, come non possiamo non fare, gli impegni europei. C'è una sola via d'uscita, per la politica e per il Paese, ed è una via che passa per il Quirinale: appena approvata la legge di stabilità, al colle più alto di Roma deve salire Berlusconi per dimettersi e da lì deve scendere in Parlamento, per ottenere una fiducia ampia e trasversale, un governo «di responsabilità europea», sul modello del governo Ciampi, presieduto e composto da personalità non immediatamente riferibili alle forze politiche, incaricate dal Presidente della Repubblica di predisporre e presentare, prima in Parlamento e poi in Consiglio europeo, un piano straordinario di risanamento finanziario e di rilancio economico del Paese. Nel frattempo, le forze politiche avranno il tempo di riorganizzare le loro idee e le loro proposte, insieme alle regole istituzionali: dalla legge elettorale alla riforma del bicameralismo con la riduzione dei parlamentari. E un anno dopo si potrà tornare a votare. Il Pd sostiene unito e convinto questa ipotesi. Questo mi fa pensare e sperare che, nonostante tutto, forse siamo sulla strada giusta per tornare ad essere una speranza vera per il futuro dell'Italia.
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