La nonviolenza tradita e la piazza (reale) necessaria

L'appello del direttore de il T Quotidiano per superare l'indifferenza e tornare in piazza a sostegno della pace è quantomai opportuno ed è importante che sia accolto positivamente. Al tempo stesso pone, però, degli interrogativi sul perché sia cresciuta l'indifferenza e sul perché non sia così urgente e necessario mobilitarsi per la pace. Provo a misurarmi con questi interrogativi.
Roberto PInter, "Il T Quotidiano", 10 ottobre 2024

 

Che la guerra oggi sia considerata ineluttabile, normale strumento per la soluzione dei conflitti, che sia tornata ad essere attuale proprio quando la globalizzazione doveva portare al superamento dei troppi confini e dei troppi nazionalismi, è al tempo stesso un paradosso e una cocente sconfitta per chi aveva creduto che fosse possibile archiviare le tragedie del ventesimo secolo. D'altronde per un muro che era caduto dieci nuovi muri sono stati eretti e non solo negli scenari lontani, ma anche nell'Europa nata proprio per superare i confini e prevenire nuove guerre.

Non c'è purtroppo alcun dubbio che il mondo va nella direzione sbagliata: la minaccia del ricorso al nucleare è tornata nello scontro tra le potenze, il riarmo è diventato il nuovo imperativo per tutte le nazioni che se lo possono permettere, i nazionalismi ritornano ad essere centrali e decisivi nel voto popolare, le minoranze continuano ad essere le vittime preferite, i fragili equilibri della convivenza vengono cancellati dai fondamentalismi e la pulizia etnica e religiosa torna ad essere la drammatica realtà.

Sembra che non ci sia motivo di speranza e accanto al cambiamento climatico e alle epidemie le guerre ipotecano il futuro dell'umanità. Possibile che si accetti tutto questo? Anche quando non si tratta del destino di popoli e terre a noi lontane, ma del nostro destino e della nostra terra.

È possibile? A quanto pare sì, e non parlo solo della mancata mobilitazione, ma anche delle coscienze che sembrano addormentate e anestetizzate.

Tra le ragioni del perché di questa indifferenza si indica la disillusione, cioè la constatazione che raramente le mobilitazioni popolari hanno conseguito risultati politici, che la politica e i governi anche quando non cavalcano le paure in realtà non sanno prevenire i conflitti e non sanno costruire soluzioni non violente. È certamente una verità ma non giustifica il silenzio di un movimento che non può aver paura di predicare nel deserto.

Quindi c'è qualcos'altro. E in questo qualcos'altro penso ci sia la confusione, il desiderio di pace che non trova il modo di esprimersi, il timore di schierarsi dalla parte sbagliata, l'impotenza nel non riuscire a trovare una risposta che non sia solo una preghiera, ma anche una politica da sostenere.

Siamo in un mondo interconnesso, dove non esiste la mancanza di informazione, tutti possono sapere tutto. Ma le barriere digitali sono ancor più forti di quelle fisiche, visto che permettono ai regimi o a gruppi di potere un controllo ferreo, con il ricorso sistematico alla disinformazione e alla propaganda che plasma le coscienze. Quindi se non ci si attrezza e non ci si impegna per una lettura critica di quanto accade, si viene travolti da una complessità costruita appositamente per occultare la verità.

C'è un terzo tema, accanto alla disillusione e alla disinformazione costruita, ed è la difficoltà di fare delle scelte superando l'ambiguità di quelle che vengono proposte.

Due esempi: Ucraina e Palestina. Abbiamo visto lo sdegno per l'occupazione dell'Ucraina da parte della Russia di Putin, ma non è mancata una contronarrazione che imputava all'Occidente la responsabilità della guerra e sono peraltro cresciuti i dubbi rispetto alla direzione intrapresa dall'Ucraina. Oggi tornare in piazza per il cessate il fuoco vedrebbe chi lo considera possibile solo dopo aver vinto la guerra e quindi sostenendo l'invio di armi e l'autorizzazione ad usarle senza limiti, e chi lo considera necessario a prescindere anche se comportasse qualche rinuncia. Due visioni che, anche tralasciando quelle filorusse o meglio antiamericane, faticano a trovare un punto di incontro.

Così come scendere in piazza per il cessate il fuoco a Gaza o in Libano, non è facile, perché si ritroverebbero nella stessa piazza chi riesce a giustificare Israele e chi riesce a giustificare Hamas. Io stesso che ho sempre sostenuto la causa palestinese sono in difficoltà nel ritrovarmi a fianco di chi vuole cancellare Israele, anche se trovo orribile quello che sta facendo.  

Ritorna allora il problema sollevato dal sociologo Diani, che c'è un popolo della pace che scende in piazza per la pace e un popolo che si mobilita solo contro qualcuno, siano essi gli americani, i russi, gli arabi, i cinesi. Come se la pace, o meglio la vita, non fosse un imperativo, ma solo qualcosa da rivendicare dopo aver vinto la guerra. Il problema è che oggi nessuno può vincere una guerra, ma solo perderla di meno, visto il carico di morte e di sofferenza che ogni guerra comporta.

Ma non basta definire «utili idioti» chi non condivide la propria visione delle cose, perché ovviamente la stessa cosa viene pensata dagli altri di te.

Io capisco l'esasperazione, perché il 7 ottobre non giustifica quello che sta facendo Israele, ma nemmeno quello che sta facendo Israele giustifica l'odio per gli ebrei.

Il popolo della pace dovrebbe trovare il modo di superare l'odio da qualsiasi parte si trovi, predicare la nonviolenza in un mondo che risolve i problemi solo con la violenza, ma anche avere la lucidità di comprendere che non possiamo farci usare né come carne per i cannoni né come carne per la propaganda. E quindi ristabilire il principio della responsabilità, quella che ad esempio è stata rimossa nel caso del feroce colonialismo italiano, quella che appartiene alla logica depredatoria dell'Occidente, quella che si assume ogni governo che sceglie la strada del riarmo rispetto al farsi parte attiva di una politica intransigente nel rispetto dei diritti umani, compresi quelli dei migranti che affondiamo nel mare nostrum.

Capisco che così io stesso complico la possibilità di partecipare ad una mobilitazione, ma fin da quando ero presidente del Forum della pace ho maturato la consapevolezza che la pace è un problema di cultura certo, ma anche di scelte politiche.

Rimane comunque l'esigenza di superare l'indifferenza, uscire dalla insidiosa piazza virtuale e di scegliere quella reale, dove provare a misurare le proprie ragioni, attivare il confronto e soprattuto chiedere un cessate il fuoco senza condizioni richiamando partiti e Istituzioni alle loro responsabilità a partire dal rispetto per la nostra Costituzione.