Nei giorni in cui si è tornati a parlare, anche attraverso l'autorevole voce del Presidente della Repubblica, di quella straordinaria esperienza pedagogica che è stata la scuola di Barbiana, creata nel cuore del Mugello da don Milani per portare un'istruzione (giusta e di qualità) ai figli dei contadini, i dati sulla condizione giovanile in Italia rimangono sconcertanti.Lucia Maestri, 2 giugno 2023
Siamo il paese europeo con più Neet, giovani under 30 che non studiano e non lavorano. Circa uno su cinque, con una bilancia fra i generi che penalizza in particolare le ragazze. Al tempo stesso, le imprese denunciano una crescente difficoltà a soddisfare i propri bisogni occupazionali. Un problema che comincia a manifestarsi anche in Trentino, solo parzialmente superato grazie ai lavoratori stranieri.
Se a tutto ciò sommiamo la "fuga di cervelli" di giovani che spesso si sono formati nei nostri atenei, e su cui quindi la comunità ha investito, attirati da migliori condizioni di lavoro all'estero, il quadro è completo, ed è un quadro quantomai allarmante.
Come si vede, non abbiamo di fronte un problema, ma una una matassa apparentemente inestricabile di problemi. Uno dei nodi fondamentali da sciogliere è costituito in ogni modo dalla scuola, dalla qualità della scuola.
Sulla scuola prova ora a metterci le mani anche la Giunta provinciale con la riforma Bisesti, che punta a stravolgere le carriere dei docenti introducendo dosi di supposta meritocrazia. Gli obiettivi, va chiarito subito, non sono un tabù per il PD. Il riconoscimento del merito, se correttamente inteso, ovvero se può fungere da stimolo ad una continua crescita professionale della classe insegnante, di cui possano beneficiare alunni e studenti, è una sfida da raccogliere. Purché, naturalmente, non costituisca un pretesto per creare percorsi d'élite - di studio o professionali - e lasciare indietro tutti gli altri. Ma su questo, ci auguriamo, non dovrebbero esserci ambiguità o fraintendimenti. La scuola, in particolare la scuola pubblica, è uno dei capisaldi dello stato sociale italiano, e tale deve restare.
Il punto, come sottolineato da tanti docenti ed anche dalle loro rappresentanze sindacali, sono il metodo adottato per delineare questa riforma dal sapore inconfondibilmente pre-elettorale, ma soprattutto il contenuto declinato in strumenti che si vorrebbero introdurre.
Affrontare il tema del “merito” e ripeto, condividendo che premiare il docente “bravo” sia giusto oltre che auspicabile, rimangono da definire i parametri secondo i quali determinare il diverso grado di “bravura”.
Il nostro parametro potrebbe essere quello di valutare l’azione didattica, la capacità di relazione con gli studenti, le competenze professionali del docente, oppure quello di valutare il docente in rapporto alle sue capacità ed inclinazioni di rispondere positivamente alla domanda della scuola di coprire funzioni organizzative interne, condividendo lo stesso docente, con il dirigente la costruzione di una leadership diffusa.
E’ del tutto evidente che, assumere l’uno o l’altro parametro (e certamente il primo sarebbe IL parametro che si confà alla valutazione della “bravura” del docente) non è un fattore neutro o indifferente né rispetto alla declinazione della “funzione docente” che si vuole sostenere e promuovere né rispetto alla costruzione delle necessarie griglie valutative.
Il disegno di legge in discussione, steso trascurando qualsiasi ricerca di una base condivisa sulla declinazione principio del “merito” abbraccia in maniera piuttosto plateale la prospettiva della costruzione della leadership diffusa.
Ed ecco la previsione di una procedura di concorso, che si affianca alla presentazione del curriculum vitae, per accedere alla fascia di docente “esperto”, (e poi dopo altri cinque anni di “docente ricercatore”).
In assenza di chiarezza riguardo agli strumenti di valutazione, è difficile immaginare che questa procedura possa conciliarsi con la tutela del docente nei confronti di pressioni e condizionamenti. Anche perché per accedere al concorso si immagina anche una pre-selezione affidata sostanzialmente al dirigente scolastico. Un mix di dirigismo e competitività, quindi, che mortifica i collegi docenti e pone qualche problema persino sul piano costituzionale.
In termini di risorse, si immagina che con quelle dedicate, circa 10 milioni e mezzo di euro, la riforma interesserà a regime – cioè in un arco di tempo di 5-6 anni - circa il 40% dei docenti. Ma attenzione! Quei 10 milioni di euro che l’Assessore Bisesti paventa come “grande investimento sulla scuola” altro non sono che il reimpiego di previsti risparmi dovuti alla contrazione delle assunzioni di docenti negli anni, causa supposto calo demografico, e al venir meno del già ad oggi operativo fondo per la valorizzazione del merito (Fius)
A prescindere dalla lunghezza dei tempi di applicazione, dal non investimento sulla scuola (e quando mai si possono promuovere riforme di questo tipo senza investire nella scuola?) quel 40% di docenti rimane una percentuale determinata arbitrariamente sulla base di valutazioni di budget e non di criteri di valutazione oggettivi. Gli insegnanti esperti comunque individuati dovranno far fronte allo svolgimento di mansioni aggiuntive, assegnate dal dirigente scolastico. In quanto a quelli che non riescono a superare la selezione o non possiedono ancora i requisiti previsti, in particolare i 5 anni di servizio, la questione si pone, con tutta evidenza, in altro modo. La proposta prevede infatti che i docenti che imboccheranno la strada della carriera manterranno il ruolo almeno per tre anni. Poi potranno chiedere di tornare docenti ordinari. Se questo non avviene, però, e se nell’istituto scolastico è stato già raggiunto il tetto previsto di docenti esperti, (tetto determinato da delibere di Giunta e non dalle scuole) l’insegnante che vuole accedere a questa fascia dovrà rinunciare alla carriera o alla scuola scelta.
Questi sono solo alcuni degli aspetti problematici di una riforma calata dall'alto, a cui manca una visione, quella di una scuola come di un organismo complesso, non come una mera sommatoria di figure, ruoli, selezioni da superare. Una scuola che secondo noi dovrebbe incoraggiare invece il lavoro di squadra, l’appartenenza alla classe docente come ad un "corpo", lo sviluppo dell’autonomia scolastica e delle sue prerogative.
Manca, in questo confuso disegno, una riflessione sulla figura dell’insegnante che punti a valorizzare la sua autorevolezza, che legittimi il suo ruolo educativo e formativo in termini economici ed extraeconomici, affrontando temi come formazione continua, condizioni e qualità del lavoro, risultati attesi e loro criteri di valutazione. Manca l'osmosi con il mondo esterno, la società, fatta di occasioni di lavoro e sollecitazioni culturali, di volontariato, di esperienze formative extrascolastiche.
In una proposta così vaga, manca infine una definizione degli aspetti contrattuali rimasti irrisolti, che tenga conto della precarietà di cui soffre una parte del corpo docente e delle tempistiche di per sé molto lunghe previste per l’applicazione della riforma. Le formule rimangono in ogni caso (volutamente, a nostro giudizio) indefinite. Ogni dettaglio - e qui i dettagli sono una parte importante del disegno complessivo - viene rinviato a delibere e regolamenti assunti dalle prossime Giunte. Una delega in bianco, insomma!
Un’ultima considerazione sul coinvolgimento degli studenti e delle loro famiglie. Nemmeno questo è un dettaglio trascurabile. Il mondo degli adulti non fa che parlare di nuove generazioni, tant'è che il più ambizioso programma di sviluppo lanciato dall'Unione europea, da quando esiste, è chiamato Next Generation UE. Ma le nuove generazioni avranno pur qualcosa da dire. O continuano ad essere meri terminali di progettualità elaborate altrove? Gli studenti vanno coinvolti non tanto per consentire loro di esprimere un giudizio sull’operato degli insegnanti, ma in fase progettuale. Hanno molte cose da dire, lo vediamo quando si misurano con i temi che stanno loro davvero a cuore, come il cambiamento climatico, che è come dire la loro vita futura su questo pianeta. Queste energie si possono trasformare in input significativi per la didattica. È qui che la scuola dell’Autonomia può fare la differenza.
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