Il Partito che manca all'Italia. Ricomporre la frattura tra riformismo e popolo si può

Scrivo queste note mentre ancora non si conoscono i risultati della tornata elettorale e referendaria. Le riflessioni proposte qui di seguito, almeno in una certa misura, possono peraltro prescindere dalla puntuale registrazione dei rapporti di forza nel paese che il voto ci presenterà nelle prossime ore.
Giorgio Tonini, "Il Foglio", 21 settembre 2020

 

Il nocciolo della “questione riformista” in Italia resta infatti sostanzialmente lo stesso: sia in caso di (probabile ma non certa) vittoria del Sì, sia in caso di successo del No; e soprattutto, sia nel caso in cui le elezioni regionali siano andate molto male per il Pd e il centrosinistra, con lo sfondamento della destra anche in Toscana, dopo l’Umbria e assai probabilmente le Marche, sia nel caso siano andate meno male, con la tenuta della linea difensiva dell’Appennino, almeno sul versante tirrenico. Che il Nord, dalla Liguria al Veneto, sia al momento fuori portata per il centrosinistra non lo mette in dubbio nessuno. E anche al Sud, Pd e alleati, ormai da diversi anni, sono in ritirata o chiusi in difesa.

Al contrario della destra, il Pd è del resto costretto a combattere su due fronti: lungo l’asse tradizionale destra-sinistra, ma anche lungo la incerta e insidiosa frontiera, variamente definibile come la linea che divide politica e anti-politica, sistema e anti-sistema, riformismo e populismo. A destra, in particolare a livello regionale e locale, questa seconda linea di confine semplicemente non esiste, o comunque non impedisce la formazione di coalizioni elettorali. E questo, soprattutto alle regionali, è un vantaggio competitivo non di poco conto.

Dunque, entrambi gli scenari plausibili, il “molto male” come il “menomale”, certo con un diverso tasso di drammaticità, ci mettono di fronte al nocciolo della “questione riformista”: ben al di là delle consuete e probabili dispute su assetti di vertice ed equilibri correntizi, ci parlano del paradosso del riformismo italiano e di quella che dovrebbe, o sarebbe dovuta essere, la “casa comune” dei riformisti, il Partito democratico. Una cultura (il riformismo) e un partito (il Pd, il più europeo e il più americano dei partiti italiani) ai quali bene si attaglia la definizione che nel 1998 Madeleine Albright coniò per gli Stati Uniti d’America: “la nazione indispensabile”. Indispensabile anche se non amata, era il sottotesto del celebre discorso del segretario di Stato dell’amministrazione Clinton.

Come gli Usa nel mondo dopo la caduta dell’Unione sovietica,  riformismo democratico e Pd (si parva licet...) sono “indispensabili” all’Italia post-berlusconiana, nel senso che senza di loro il paese, semplicemente, va a rotoli. E infatti, il Pd governa anche quando “non vince” le elezioni, come accadde nel 2013, e perfino quando le perde malamente, come è successo nel 2018. Un anno di governo giallo-verde, il governo dei “due vincitori”, o dei due “populismi”, accomunati dal medesimo sentimento anti-europeo e anti-americano, è bastato a richiamare d’urgenza, al capezzale dell’Italia, ciò che restava del Pd e del riformismo italiano. Indispensabile al governo quindi, e tuttavia non amato dal popolo. Lo si potrebbe definire il paradosso della “egemonia senza consenso”: il riformismo democratico del Pd è la cultura politica egemone nel paese (“unrivaled”, per usare un’altra metafora americana), in quanto indispensabile al governo, perché è l’unica a presidiare il “principio di realtà”. E tuttavia, il riformismo democratico non riesce ad allargare, ma ha visto anzi restringersi paurosamente, le sue basi di consenso. Perché non riesce a farsi amare dal popolo. A interpretare e rappresentare il “principio di piacere” che il popolo esprime e senza il quale la politica perde la sua capacità di mobilitare sentimenti e passioni e si riduce a tecnica amministrativa. Non riesce a immaginare e raffigurare il paese come lo vorrebbe il popolo (“l’Italia che vogliamo” era lo slogan, oggettivamente vuoto ma soggettivamente efficace, del primo Ulivo) e non solo com’è.

Qualunque agenda, programma, iniziativa di rilancio del riformismo democratico è da questo nodo decisivo che deve prendere le mosse. Se vuole tornare competitivo nel confronto col centrodestra alle prossime elezioni politiche (quando ci saranno), il centrosinistra deve portare il livello di consenso all’altezza della sua capacità egemonica, se non vuole rassegnarsi al processo contrario. E per farlo, deve in qualche modo risolvere il conflitto sul versante “populista”. Difficile, molto difficile. Ma non impossibile. Perché, a ben guardare, il riformismo democratico ha nel suo patrimonio genetico i cromosomi necessari a realizzare questa impresa.

“I riformisti (progressives) stanno col popolo, non con i privilegiati”. È la lezione numero uno che John Podesta proponeva nel 2008 ad un Partito democratico (americano) che con Barack Obama stava provando a rialzare la testa dopo le batoste subite per mano di George W.Bush. John Podesta, intellettuale e dirigente democratico nato a Chicago da una famiglia italoamericana, non è un esponente della “sinistra” del partito dell’Asinello. È stato per diversi anni capo-staff di Bill Clinton alla Casa Bianca e poi consigliere di Obama e coordinatore della campagna elettorale di Hillary Rodham Clinton. Ha fondato e dirige il Center for American Progress di Washington. Nel suo “The Power of Progress” (2008) descrive il Partito democratico americano come un crogiolo di filoni di cultura politica, a cominciare da quello “liberal” e da quello “populist”, che si sono fusi tra loro nel tempo dando luogo a sempre nuove sintesi. Del “progressismo populista”, nel quale più si riconosce, Podesta elogia le radici non ideologiche e dottrinarie, ma prevalentemente etico-religiose, sia protestanti che soprattutto cattoliche; il municipalismo e più in generale la centralità dei governi locali, come laboratorio di politiche sociali avanzate e di creazione di classi dirigenti anche per il governo federale; il pragmatismo e il trasversalismo in chiave anti-ideologica, anti-settaria e tendenzialmente bi-partisan; il comunitarismo solidale e cooperativo contro gli eccessi individualistici del liberalismo.

L’incontro dei populisti coi democratici, ricorda Podesta, ha radici antiche: risale al 1896, quando i due partiti decisero di unire le forze nel sostenere la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti di William Jennings Bryan, come tutti i populisti uno strano impasto di conservatorismo, specialmente in campo etico-religioso, e progressismo sociale. Bryan perse la sfida per ben tre volte, ma trasformò radicalmente il Partito democratico, dice Podesta, “in una forza politica che credeva in un governo forte, per contrastare monopoli e privilegi di pochi e per sostenere gli interessi dei gruppi sociali più deboli”. Un punto fermo nella storia politica americana è rimasto il discorso di Bryan alla Convenzione democratica di Chicago. “Ci sono due idee di governo”, spiegava. “Ci sono quelli che credono che legiferando a favore dei benestanti, la prosperità di questi si riverserà anche sulle classi subalterne. E c’è l’idea democratica, per la quale invece solo se si fanno leggi a favore delle masse, la prosperità di queste troverà la via per arrivare anche a chi sta sopra di loro”. Sono gli stessi argomenti, osserva in conclusione Podesta, usati negli anni ‘80 dai democratici contro la “trickle-down economics” di Ronald Reagan e rilanciati nella corsa alla Casa Bianca di Obama.

C’è dunque un “populismo democratico”. E anzi, a sentire uno dei principali ispiratori del clintonismo (e a riprova che quella stagione fu tutt’altro che subalterna al “liberismo”), non può esserci pensiero democratico che non contenga in sé una dose (ragionevole e controllata) di populismo. Ove per dose ragionevole e controllata mi pare si possa intendere uno stare dalla parte del popolo, vissuto e praticato. Dunque credibile e non demagogico, sostenibile e non illusionistico, intellettualmente onesto e non cinicamente strumentale. Uno stare con il popolo, senza il quale il riformismo diviene elitarismo, ossia la negazione in radice dell’idea (se si vuole, dell’utopia) democratica. L’idea, l’utopia, scolpita nella famosa frase del Gettysburg Address del presidente repubblicano più amato dai Democrats, Abraham Lincoln (19 novembre 1863): “Government of the people, by the people, for the people”. Uno stare con il popolo che non può non tradursi in due, tanto decisivi quanto sfidanti, filoni politici e programmatici: un’idea di politica “dal basso”, bottom-up, partecipata, aperta, competitiva, anti-oligarchica e anti-establishment, fondata sul principio della contendibilità democratica di tutte le cariche politiche; e un programma economico e sociale finalizzato al benessere dei tanti e non dei pochi, a far sentire il popolo partecipe di un processo reale e realistico di avanzamento e miglioramento, concreto e percepibile, delle condizioni di vita delle persone, delle famiglie, delle comunità. Main Street e non solo Wall Street: la percezione concreta delle persone, non solo l’andamento positivo degli indicatori macroeconomici.

È quando è riuscito ad esprimere appieno questa duplice carica innovatrice, democratica e popolare, che il riformismo, anche in Italia, si è affermato sul piano elettorale e politico. Ed è riuscito a contrastare efficacemente il diffondersi del populismo antiriformista e in definitiva antidemocratico, perché non mediato politicamente, incapace di trasformare la protesta in proposta, il desiderio e il bisogno in progetto e processo di cambiamento.

L’8 settembre del 2007 Beppe Grillo riempiva all’inverosimile Piazza Maggiore a Bologna per il V-Day, ove la “V” non stava per “victory”, ma per una nota imprecazione italiana che comincia con “vaffa”. Poco più di un mese dopo, il 14 ottobre, 3 milioni di italiani si mettevano in fila davanti ai gazebo per eleggere l’assemblea costituente e il leader di quello che si definiva non un “nuovo partito”, ma un “partito nuovo”. Nuovo perché “dal basso”, aperto, competitivo, in una parola “democratico”: of the people, by the people, for the people. Alla guida del Pd fu acclamato Walter Veltroni, dirigente politico esperto, ma allora anche e soprattutto sindaco amato dal popolo. La proposta di Veltroni è riassumibile nel binomio “Primarie e Lingotto”: partito dal basso e programma socio-economico coraggiosamente innovativo, sulla scia del migliore riformismo italiano, europeo, nordamericano.

Per la prima volta Berlusconi fu costretto a inseguire. Dal famoso predellino lanciò il Pdl: non “partito” come il Pd, ma direttamente “Popolo” della Libertà. Pochi mesi dopo si andò al voto. Sull’onda dell’opposizione al confuso governo dell’Unione di centrosinistra, Berlusconi vinse. Ma il riformismo democratico del Pd raccolse da solo 12 milioni di voti. Centrodestra e centrosinistra avevano entrambi assunto e metabolizzato dosi sostenibili di populismo. E forse anche per questo, il conflitto destra-sinistra era rimasto centrale nella politica italiana. Di Grillo e del suo “vaffa” per il momento si erano perse le tracce.

Due anni dopo, sulla rivista “Il Mulino”, il sociologo bolognese Fausto Anderlini pubblicava due cartine colorate dell’Emilia-Romagna, che registravano la forte infiltrazione leghista nelle aree rurali e montane della Regione rossa per antonomasia e la rapida crescita del grillismo in quelle urbane. “Il Pd è sotto un duplice assedio”, scriveva: dalla Lega sui territori e ora anche dal grillismo nei centri urbani. Da questo secondo versante arriva la minaccia più insidiosa: “Il Pd di Veltroni aveva attratto questa fascia di elettorato, l’aveva catturato. Soprattutto con il messaggio di un partito aperto, di formule democratiche nuove come le primarie: insomma ha creato una aspettativa che è rimasta delusa e che ora si è messa in proprio”. Liquidata la “nuova stagione” di Veltroni, il Pd aveva sguarnito la decisiva frontiera col populismo e l’offensiva democratica del 2007-2008 si era rovesciata in una graduale ritirata, che aveva lasciato prive di presidio e di difesa praterie elettorali per la protesta antipolitica. Maturano in quel contesto le premesse della “non vittoria” alle elezioni politiche del 2013, segnate dall’ingresso massiccio in Parlamento del MoVimento (con la V maiuscola).

Un anno dopo, alle elezioni europee, il Pd sfonda il muro del 40 per cento dei voti e “doppia” il Movimento Cinquestelle. In mezzo, c’è la conquista della leadership del campo democratico da parte di Matteo Renzi. Se Veltroni era stato acclamato, in un clima di unità costituente del “partito nuovo”, Renzi mette in pratica fino in fondo il principio della contendibilità e travolge gli avversari con la parola d’ordine della “rottamazione” del vecchio gruppo dirigente. Una parola d’ordine che più “populista” non poteva essere. Forte dell’affermazione plebiscitaria nel partito, Renzi prende in mano la guida del governo e mette in campo una seconda mossa “populista”: il famoso bonus di 80 euro al mese, mille euro l’anno per 10 milioni di lavoratori, quelli a reddito (individuale) più basso, per un costo annuo di 10 miliardi. Basta politiche di bilancio restrittive (e recessive), dice Renzi, è tempo di tornare a politiche espansive e redistributive, a cominciare dai redditi da lavoro. Le due mosse del “populismo democratico” renziano portano il Pd al massimo storico in percentuale elettorale (in voti assoluti il record del 2008 resta imbattuto), consegnandogli un patrimonio di consenso che legittima la sua egemonia per tutta la legislatura. Fino alla rovinosa caduta in volo del dicembre 2016, nel pieno di una manovra spericolata e azzardata, la politicizzazione spinta del referendum costituzionale, sfidando tutto e tutti, fuoco amico compreso.

Due leader e due contesti diversissimi tra loro. Ma proprio per questo due conferme parallele della fondatezza e della plausibilità della tesi di John Podesta: il riformismo democratico vince se prende sul serio la protesta populista, se non la rimuove o la demonizza, ma riesce a mediarla politicamente. Sui due versanti, ugualmente decisivi, del programma, in particolare economico e sociale, e delle forme e degli strumenti dell’azione politica.

 

La scorsa legislatura europea (2014-19) è stata segnata, almeno nella prima parte, da un accordo tra i popolari (guidati dalla Germania della Merkel) e i socialisti e democratici (a guida italiana, grazie all’exploit elettorale del Pd di Matteo Renzi). L’intesa italo-tedesca si è concretizzata in una interpretazione “flessibile” delle regole europee in materia di finanza pubblica, finalizzata ad affrontare, attraverso una politica economica moderatamente espansiva, gli effetti della più grave crisi economica dal dopoguerra. Fermo restando l’obiettivo del pareggio di bilancio e della riduzione del debito, si sono concessi ai governi (e in particolare a quello italiano) tempi più lunghi per conseguirlo. Al tempo stesso, l’accordo ha consentito implicitamente al presidente della Bce, Mario Draghi, di tenere una linea di politica monetaria marcatamente espansiva, finalizzata a sostenere la crescita spingendo verso il basso i tassi d’interesse.

Questa linea politica, il famoso “sentiero stretto” del ministro Pier Carlo Padoan, una linea che chi scrive ha condiviso dalla presidenza della commissione Bilancio del Senato, ha prodotto risultati incoraggianti: deficit e debito hanno rallentato la loro corsa, mentre i dati dell’economia reale, crescita e occupazione, tornavano moderatamente positivi. È dunque del tutto sbagliato descrivere il riformismo democratico come appiattito su un sostegno ottuso e subalterno ai dogmi dell’ortodossia europea. Il Pd quella ortodossia l’ha sottoposta ad un vaglio critico e l’ha significativamente modificata. Anche tenendo ben presenti, in un quadro di evoluzione europea, gli interessi nazionali italiani.

E tuttavia, nonostante i risultati incoraggianti, gli italiani hanno punito il Pd e il compromesso italo-tedesco e votato in massa per il populismo sovranista e nazionalista, anti-euro e in definitiva anti-europeo. Questa dura replica della storia rinvia nuovamente al conflitto tra egemonia e consenso che sostanzia la questione riformista italiana. E ne definisce, per così dire, la base strutturale. L’Italia ha lo Stato più indebitato d’Europa, ma il suo popolo è quello che si sente maggiormente in credito, nei riguardi dello Stato e dell’Europa stessa. Dunque, il nodo del rapporto tra riformismo e popolo non può  essere sciolto senza adottare un punto di vista al tempo stesso italiano ed europeo.

Lo riassumerei, questo punto di vista, richiamando tre dati essenziali. Il primo è largamente noto: nel periodo 1995-2018, dal primo governo Berlusconi fino al governo Gentiloni, il debito pubblico italiano è passato da 1.150 a 2.300 miliardi di euro e da circa il 120 a più del 130 per cento in rapporto al pil. Meno noto è il secondo dato: in quello stesso periodo (1995-2018) gli italiani si sono visti addebitare, in rate annuali (grazie all’euro, per fortuna, decrescenti), 1.850 miliardi di interessi. Sommando al debito del 1995 gli interessi maturati, nel 2018 il debito avrebbe dovuto superare i 3.000 miliardi. Se ciò non è accaduto, è perché in quegli stessi anni gli italiani hanno pagato più di 700 miliardi di “avanzo primario”, ossia di differenza tra quanto incassato e quanto speso dallo Stato, al netto degli interessi. Questo terzo dato, quasi mai citato, ma familiare ai lettori del “Foglio” perché  ampiamente indagato dal prof. Fortis, riassume i “sacrifici” sopportati dagli italiani nell’ultimo quarto di secolo. Nessun paese ha fatto tanto: il più virtuoso, la Germania, ha messo insieme “solo” 500 miliardi di avanzo primario, metà dello sforzo dell’Italia se rapportato al pil; Francia e Spagna hanno cumulato addirittura disavanzo primario. E tuttavia, questo sforzo gigantesco è riuscito solo a rallentare la crescita del debito, che ha continuato la sua ascesa, sia in cifra assoluta sia in rapporto al Pil, anche a causa della bassa crescita del prodotto.

Si potrebbe allora riassumerla così la base strutturale del divorzio tra riformismo europeista e popolo: dopo un quarto di secolo di “sacrifici” gli italiani hanno detto che sono stanchi di pagare; che pensano di aver fatto abbastanza e anzi si sentono in credito, anche perché, almeno in termini relativi, la condizione di vita delle famiglie (e in modo particolare dei giovani) non è migliorata, ma si è fatta più fragile, incerta, precaria. E anche perché hanno capito che se non avessero sulle spalle il peso del passato (il debito gigantesco accumulato negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso, peraltro per finanziare spesa corrente, in gran parte previdenziale, certo non investimenti), oggi avrebbero la finanza pubblica più sana d’Europa.

Il problema è che del passato non ci si può liberare con uno scrollone e che il debito c’è e continua a crescere. Se non deve quindi sorprendere che il populismo antieuropeista dei leghisti e dei grillini sia stato ampiamente premiato alle elezioni politiche del 2018 e a quelle europee del 2019, non deve sorprendere neppure il suo fallimento nel proporsi come una via d’uscita praticabile dal problema italiano. Smettere unilateralmente di fare avanzo primario, come aveva deciso di fare il governo giallo-verde, non poteva che portare ad una crescita, non dell’economia reale, ma della spesa per interessi e ad un balzo in avanti del debito, ai limiti della sua sostenibilità.

Era dunque già chiaro da tempo, e alcuni di noi lo ripetevano invano, che la crisi italiana si era infilata in una strada senza uscita, dalla quale si poteva emergere solo attraverso una svolta della politica europea, ben più radicale e coraggiosa della “flessibilità” adottata dalla Commissione Juncker. Una svolta “americana”: fare a Bruxelles (almeno un po’...) come si fa a Washington, dove si usano il dollaro e il bilancio federale, non solo per garantire la stabilità, ma anche per alimentare la crescita dell’Unione e rendere quindi sostenibile anche il pareggio di bilancio dei singoli Stati. Solo con un significativo bilancio europeo, fortemente orientato in senso espansivo, noi italiani avremmo finalmente potuto contare su una potente spinta alla crescita e all’occupazione, che rendesse socialmente e politicamente sostenibile la stabilizzazione e la riduzione del debito nazionale.

Quel che sembrava utopistico anche solo un anno fa, nonostante l’impegno sostanzialmente solitario del presidente francese Macron, è diventato possibile e anzi reale grazie alla paurosa crisi innescata dalla pandemia da Covid-19. Si tratta di un’occasione straordinaria per ricomporre la frattura tra riformismo e popolo. E come tale va compresa, raccontata e gestita, sia a livello di governo che, ancora di più, sul piano politico. Naturalmente per ricomporre la frattura, è necessario che nella narrazione siano presenti tutte e due le parti da saldare: è necessario mostrare la vicinanza al popolo della nuova Europa e della politica italiana che la rappresenta e la incarna; ma non è meno necessario salvaguardare il profilo riformista dell’europeismo, la condivisa determinazione ad utilizzare le abbondanti risorse europee non solo per comprare tempo, ma per rendere possibile una crescita solida e duratura del prodotto e della produttività, in modo da porre le premesse per un’uscita effettiva dall’attuale rischio di insostenibilità finanziaria, economica e sociale del nostro debito. Gli applausi (quasi) universali al discorso di Rimini di Mario Draghi fanno ben sperare, perché quel testo contiene un programma al tempo stesso impegnativo e realistico per gestire l’attuale stagione di nuovo e pesante, necessario e rischioso indebitamento, con lucidità e lungimiranza e non miopia e pigrizia. Assumere e far vivere nel popolo, nelle case degli italiani preoccupati per la loro famiglia e in particolare per il futuro dei giovani, l’Agenda Draghi è al tempo stesso la grande occasione e la grande sfida dinanzi alla quale si trova il riformismo democratico. Da come saprà gestire questo passaggio, dipende buona parte della soluzione del paradosso  della “egemonia senza consenso”: nella direzione di un allargamento delle basi di consenso, necessario a legittimare e rinnovare la sua egemonia politico-culturale, o viceversa.

Dice giustamente Emanuele Macaluso che la frattura tra riformismo e popolo si può ricomporre e saldare solo nel fuoco della lotta politica. Dunque, per usare un’immagine retorica antica, abbiamo bisogno di un partito capace di governare, ma anche di lottare. Di più: che ami la lotta politica quanto il governo. E amare la lotta politica significa in concreto due cose: non avere paura di lanciare la sfida per il primato di consensi del paese; e non avere paura del confronto aperto a trasparente per la leadership del partito. Sapendo che si tratta di due facce della stessa medaglia, due elementi costitutivi della stessa “funzione democratica e nazionale”, avrebbe detto Alfredo Reichlin, appunto quella di stabilire un nesso forte tra rappresentanza del popolo e azione di governo. È questo anche un altro modo di dire “vocazione maggioritaria”, un’espressione coniata non da Veltroni, che pure ha avuto il merito di rilanciarla in Italia, ma da François Mitterrand, al congresso fondativo del Psf (Epinay giugno 1971): “io sono per la vocazione maggioritaria di questo partito, mi auguro che prenda il potere. Ma vorrei che fossimo disposti a considerare che la trasformazione della nostra società non comincia con la presa del potere, ma innnazi tutto con la presa di coscienza di noi stessi e la presa di coscienza delle masse”.

Il riformismo democratico ha davanti a sé una sfida esistenziale e non può sottrarsi da questo passaggio storico. Deve tornare ad essere primo partito del paese e a fare di questo obiettivo il cuore della sua strategia politica e comunicativa. E deve farlo invertendo l’attuale deriva alla frammentazione, avallata da teorie politiciste di divisione del lavoro tra forze politiche alleate, che possono al massimo “comprare tempo”, certo non affrontare il paradosso dell’egemonia senza consenso. “Uniti per unire”, fu lo slogan della stagione di passaggio dall’Ulivo al Pd. Dobbiamo mettere in campo, in modo nuovo, questa tensione centripeta, attorno all’idea della casa comune del riformismo democratico, se crediamo nella lotta politica a viso aperto e non (solo) nella manovra tattica. Poi verranno anche le alleanze e le coalizioni: che nella società e nella politica liquide del nostro tempo non possono realizzarsi a tavolino, tra soggetti stabili e statici, ma solo nel fuoco della lotta politica, attorno ad un grande partito maggioritario che competa in modo credibile per il primato nel paese.

Del resto, è solo in un grande partito maggioritario che si può sperimentare una organizzazione politica “aperta” e “dal basso”, come tale abitabile dal popolo. Perché solo in un partito siffatto è concepibile la competizione attraverso la lotta politica, invece della composizione oligarchica tra gruppi dirigenti immutabili: la malattia degenerativa che ha devastato il Pd, col moltiplicarsi di dirigenti e perfino di leader che se ne vanno se perdono la competizione interna, oppure non perdono mai, perché si alleano sempre col vincitore di turno. Non sarà per questa via che potrà ricomporsi la frattura tra riformismo democratico e popolo. Una ricomposizione tanto possibile, quanto indispensabile. Che attende una classe dirigente che si metta all’altezza dell'impresa.