Se ne parla ancora poco, ma il 20 e 21 settembre, ai seggi elettorali, insieme alla scheda per eleggere il sindaco e il consiglio comunale, riceveremo anche la scheda per dire sì o no al "taglio" dei parlamentari. È il cosiddetto referendum "confermativo": lo prevede la Costituzione (art. 138) nei casi in cui il parlamento abbia approvato una riforma della Carta con una maggioranza inferiore ai due terzi di entrambe le Camere.
Giorgio Tonini, "Trentino", 15 agosto 2020
Cambiare la Costituzione è un passo impegnativo, da compiere con molta attenzione: ci vogliono quattro votazioni tra Camera e Senato e, se non c’è un accordo largo in parlamento, ben oltre la maggioranza assoluta, l’ultima parola ce l’ha il popolo sovrano, che può dire sì o no alla riforma. In altri casi (l’ultima volta nel 2016 con la riforma Renzi) ci siamo trovati dinanzi a proposte complesse, da spiegare e da capire. Stavolta il quesito referendario è molto semplice. Si tratta di decidere se vogliamo confermare (o no) la decisione del parlamento di ridurre il numero dei suoi membri: da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori. La mia opinione è che si tratti di una riforma insufficiente, ma comunque utile. Per questo voterò sì.
La riforma è insufficiente, perché mantiene inalterato quello che a mio modo di vedere è il vero limite del parlamento italiano: il bicameralismo paritario, due camere che fanno lo stesso lavoro. Un’anomalia assoluta, sconosciuta a quasi tutte le nazioni della terra. Del resto, sarebbe come se la Provincia autonoma avesse due consigli provinciali, o se ognuno dei nostri comuni eleggesse due consigli comunali. È noto che la scelta da parte dei costituenti per un Senato con le stesse funzioni della Camera fu una scelta dichiaratamente provvisoria, in attesa che entrassero in funzione le regioni ordinarie, cosa che è avvenuta 22 anni dopo la Costituzione, nel 1970. Da allora, cinquant’anni fa, si è posto il problema di riformare il Senato, trasformandolo nella Camera di raccordo tra legislatore nazionale (la Camera dei deputati) e quello regionale (i venti consigli regionali, più i due delle province autonome). Non si è ancora riusciti a farlo, col risultato che la funzione di raccordo tra legislazione statale e regionale viene svolta dalla Corte costituzionale, ingolfata dai continui ricorsi incrociati tra governo e regioni.
La riforma sulla quale siamo chiamati a votare non sfiora nemmeno questo problema e per questo è del tutto insufficiente. Ciò non significa che non sia, comunque, una riforma utile e per questo da sostenere. Ho sempre pensato, scritto, sostenuto anche in parlamento che mille parlamentari, ai quali si devono aggiungere quasi altrettanti consiglieri regionali, sono troppi. E non solo per ragioni di sostenibilità finanziaria, ma soprattutto per ragioni di autorevolezza e perfino di rappresentatività. Pensiamo alla nostra realtà regionale. Il Trentino-Alto Adige elegge oggi 7 senatori e 10-11 deputati, a seconda del gioco dei resti. A quanti mi dicono di essere contrari alla riduzione del numero dei parlamentari, perché mortificherebbe la rappresentanza, rispondo chiedendo loro di dirmi almeno cognome e partito di appartenenza, non di tutti, ma di metà di questi 18 nostri rappresentanti in parlamento. Nessuno, nemmeno militanti o dirigenti di partito, è in grado di farlo senza ricorrere a Google. Dunque, a voler essere prudenti, non è certo che riducendo il numero degli eletti (nel nostro caso da 17-18 a 12) migliorerebbe l’autorevolezza rappresentativa dei parlamentari, ma è almeno possibile, se non probabile, che succeda. Difficile invece che la situazione possa peggiorare. Del resto, qualcuno conosce una figura parlamentare più autorevolmente rappresentativa del senatore Usa? Eppure, i senatori americani sono cento in tutto, due per Stato.
Dunque, non è la quantità che fa la rappresentatività, ma forse proprio il contrario. Nemmeno mi pare si possa dire, come pure si sente dire dai sostenitori del no, che il taglio dei parlamentari uccida, o anche solo indebolisca, la democrazia. Perché non è vero, come abbiamo visto, per la rappresentatività. Perché non è vero per il pluralismo: il fatto che alcuni territori possano essere rappresentati in Parlamento solo da una o al massimo due forze politiche di per sé non ha nulla di antidemocratico, è così da secoli nel Regno Unito e da decenni in Spagna.
E non è vero nemmeno per le garanzie: arrivo a dire che, ad esempio, un maggior peso relativo della componente regionale, rispetto a quella parlamentare, nel collegio dei grandi elettori del presidente della Repubblica, non può che accrescere le garanzie di terzietà del Capo dello Stato. Un Parlamento meno pletorico e più autorevole potrebbe insomma rappresentare perfino un rafforzamento garantista rispetto a pulsioni populiste e plebiscitarie.
Infine: le nostre istituzioni, come tutti i palazzi storici di grande pregio artistico, hanno bisogno di continua manutenzione e talvolta di qualche intervento anche strutturale. Non si può quindi dire sempre e solo no. No alla riforma di Berlusconi, perché la voleva Berlusconi. No a quella di Renzi, perché la proponeva Renzi. E no al taglio dei parlamentari, perché porta come prima firma quella del Movimento Cinquestelle. Risultato, l’Italia bloccata dai veti incrociati. Stavolta proviamo a dire sì, a un piccolo passo, certamente insufficiente, ma che va nella direzione giusta e non chiude la strada a nuovi interventi riformatori.