Statue celebrative, un furore sbagliato

Le statue celebrative spesso non sono capolavori artistici, né veicolano messaggi particolarmente significativi, anche perché di solito mostrano soltanto un lato della storia e semplificano vicende complesse.
Luca Zeni, 28 giugno 2020

Ma è totalmente sbagliato il furore iconoclasta di questi giorni contro statue di personaggi storici accusati in particolare di razzismo, secondo una scala di valori sconosciuta nelle epoche nelle quali sono vissuti.

Abbattimenti e decapitazioni che rappresentano la degenerazione di una linea di opinione importante, che viene riassunta con il termine “politically correct”, e che in questo caso è diventata cieco fanatismo ideologico.

In alcune università americane si sta mettendo in discussione l’insegnamento di autori del calibro di Dante Alighieri, per aver collocato gli omossessuali - insieme a Maometto - all’inferno (speriamo solo che non si ricordino della statua del Poeta in piazza Dante a Trento..), e di William Shakespeare, giudicato razzista per l’Otello. L’università di Yale ha di recente eliminato un corso sul Rinascimento perché “bianco, maschilista ed eurocentrico”. Nelle riedizioni di molti romanzi scritti in periodi storici precedenti al nostro, si sostituisce la parola “negro”.

Ci siamo ormai abituati alle eclatanti forzature cinematografiche, che ci mostrano di volta in volta Achille, Enea, Zeus, o Machiavelli neri, forse per compensare i tanti Gesù biondi e con gli occhi azzurri.

È un approccio profondamente sbagliato, perché il tentativo di purificare il passato mortifica consapevolezza e ricerca di senso, impedisce di costruire un mondo migliore, perché lo erige su fondamenta fragili e fasulle.

Uno dei rischi maggiori che viviamo in quest’epoca caratterizzata dalle semplificazioni, è di contrapporre alla chiusura xenofoba e autarchica un fanatismo egualitarista, che ne è il miglior alleato. Le matrici filosofiche alla base non sono molto distanti, perché quando il relativismo diventa intollerante, finisce per essere assolutistico.

Entrambe le posizioni negano il riconoscimento della centralità della persona, del dialogo come forma essenziale di ricerca della verità, della ricerca come metodo incessante di costruzione di una società in continuo divenire.

Il Trentino per tanto tempo ha interpretato la propria autonomia come ponte, luogo di incontro tra culture, popoli, religioni. Pensiamo soltanto allo spirito del Concilio.

Oggi assistiamo invece alla continua ricerca di consenso attraverso l’individuazione costante di un nemico: lo straniero delinquente, il dipendente pubblico fannullone, la città contro le valli, il supermercato contro la sacralità della domenica, le case di riposo contro i familiari, l’Europa contro l’Italia, l’Italia contro il Trentino, il Trentino contro tutti.. Ma se contrapponessimo a questa impostazione il dogmatismo di un egualitarismo che nega le diversità e il divenire della vita, finiremmo con alimentarla.

Ecco allora emergere una terza via: invece di copiare il peggio di un manicheismo che sfocia in una politica partigiana, scontro tra interessi particolari e che si nutre della divisione della società, occorre recuperare una visione complessiva, una proposta che guardi alla società tutta.

La storia ci mostra molti esempi virtuosi di civiltà che si sono sviluppate in maniera inclusiva senza cadere in un relativismo che priva di senso, capaci di comprendere le ragioni delle minoranze sconfitte e non annientarle.

La nostra piccola provincia potrebbe candidarsi ad essere un luogo nuovo, che si colloca in maniera aperta nel mondo ma capace di mettere in discussione alcuni dogmi. Per farlo però servirebbe un cambiamento radicale di impostazione, meno slogan e tanta volontà di approfondimento nel merito nei diversi settori, secondo una visione d’insieme.

Soltanto una politica che rinunci ad essere portavoce di una parte, per divenire invece sintesi virtuosa dei tanti interessi particolari, saprà riavviare uno sviluppo autentico della comunità nel suo complesso.