Ci vorrebbe un nuovo Concilio. Un Concilio di Trento per l'Europa, nel nome di Alcide Degasperi. Sarebbe bello se lo promuovessero, insieme, la Provincia autonoma e la Città, coinvolgendo anche Rovereto, Bolzano e Innsbruck.
Giorgio Tonini, 23 aprile 2020
Se insieme invitassero a Trento le personalità più influenti del Vecchio Continente: leader politici e intellettuali, imprenditori e sindacalisti, artisti e banchieri, pastori d'anime e opinion maker. Non una cerimonia, ma una riflessione e un dialogo aperti e sinceri, dai quali far scaturire un Manifesto per l'azione, al tempo stesso immediata e lungimirante. Con un unico e duplice obiettivo: scongiurare insieme il rischio di un declino, rapido e irreversibile, dell'Europa e dell'Occidente, come esito di questa seconda, drammatica crisi del secolo, la crisi da Coronavirus; e dare forza alle nostre ragioni, ai nostri valori e interessi comuni (di gran lunga più importanti di quel che ci divide, tra Nord e Sud o tra Est e Ovest d'Europa, o tra le stesse due sponde dell'Atlantico), nel confronto speriamo pacifico e nella competizione comunque durissima che caratterizza la scena globale, con l'irrompere di nuovi protagonisti, a cominciare dalla Cina e dal mondo arabo-islamico, fino all'India e all'Africa.
Non sarebbe un parlar d'altro, rispetto alle urgenze immediate: è ormai chiaro che nemmeno le autonomie speciali più forti come la nostra possono farcela senza un nuovo patto con lo Stato; e bene hanno fatto Fugatti e Kompatscher ad andare insieme a Roma con un comune paniere di proposte. Così come è ormai chiaro che non potrà farcela nemmeno il nostro Paese, senza la spinta che può derivare solo da un cambio di marcia, coraggiosamente "federalista", nel faticoso processo di integrazione politica europea. Sembrano averlo capito, anche se ancora faticano a trarne tutte le conseguenze, persino i "sovranisti".
Qualcosa di buono, del resto, pare che stia succedendo nel complesso confronto tra le capitali nazionali, la Commissione di Bruxelles, il Parlamento di Strasburgo, e la Bce di Francoforte, grazie al lascito di Mario Draghi diventata il principale motore della solidarietà e dell'integrazione europea. Vedremo giovedì prossimo, al vertice dei capi di governo, se le interessanti e per certi versi perfino suggestive proposte, emerse nelle scorse settimane, riusciranno a diventare realtà.
Si tratta in sostanza di tre linee di credito agli Stati membri, erogate da istituzioni comunitarie con la garanzia condivisa da parte di tutti i Paesi, dunque a tassi assai più favorevoli di quelli ai quali dovrebbe sottoporsi il singolo Stato, tanto più se fortemente indebitato come il nostro. Sono il Sure, una sorta di cassa integrazione comunitaria, 100 miliardi di euro in totale, tra i 15 e i 20 per l'Italia, tra i 150 e i 200 milioni per il Trentino. 200 sono invece i miliardi che la Banca europea degli investimenti metterà a disposizione delle imprese e anche in questo caso una fetta significativa andrà all'Italia (e al Trentino), se sapremo presentare progetti e proposte credibili. Poi c'è l'ingiustamente famigerato Mes, il Fondo monetario europeo, che metterà a disposizione, sempre a tassi agevolati, risorse fino al 2 per cento del pil di ogni Paese per finanziare un cospicuo incremento della spesa sanitaria: per noi italiani significherebbe poter spendere fino a 36 miliardi in più (oggi non arriviamo a 120), per noi trentini fino a 360 milioni su 1,2 miliardi attuali.
Tre strumenti grazie ai quali i Paesi europei potranno rivolgersi al mercato finanziario, non ciascuno per conto suo col suo merito di credito (per gli italiani significherebbe oggi pagare 2 punti e mezzo di interessi più dei tedeschi), ma tutti insieme, con evidente vantaggio per tutti e per noi più di tutti.
Certo, questa opportunità, della quale solo una politica impazzita e un dibattito pubblico avvelenato possono pensare di non avvalersi, lascia ogni Paese alle prese col suo bilancio. E una cosa è alimentare un debito che sta ampiamente sotto il 100 per cento del pil, altra cosa è far crescere ancora uno stock che viaggia da tempo ben sopra quella soglia. Ma a meno che non si inventi un metodo per convincere i contribuenti-elettori tedeschi a tassarsi per pagare il debito storico degli italiani, c'è un solo modo per venire fuori tutti insieme da questa situazione: facilitare il compito di chi deve rientrare dal debito nazionale sostenendo con risorse europee la crescita di tutti e quindi di ciascuno.
A questo dovrebbe servire il quarto e più ambizioso strumento proposto al vaglio dei leader nazionali: il Recovery Fund, il fondo per la ripresa, una sorta di Piano Marshall finanziato da titoli garantiti direttamente dal bilancio comunitario. Se il Fondo avrà il via libera del Consiglio, saremo in presenza di una svolta storica per l'Europa. Dopo la moneta unica e la banca centrale unica, avremo finalmente almeno un embrione di Tesoro federale: un altro importante passo in avanti verso gli Stati Uniti d'Europa.
Se così non dovesse essere, le conseguenze di questa inazione potrebbero essere molto gravi. Sul primo numero di quest'anno (l'ultimo prima della pandemia), la prestigiosa rivista americana "Foreign Affairs" ha pubblicato uno stimolante saggio dell'economista serbo-americano Branko Milanovic, uno dei maggiori studiosi contemporanei della diseguaglianza sociale. Milanovic osserva che mai come in questa fase storica il modello capitalistico di produzione economica si è imposto come modello unico in tutto il mondo.
Ma non c'è un solo capitalismo, osserva Milanovic, ce ne sono due. C'è il capitalismo liberale e quello autoritario. C'è il modello (prevalentemente) occidentale, fondato sul compromesso tra sviluppo capitalistico e uguaglianza sociale nella democrazia liberale; e c'è il modello (prevalentemente) asiatico, basato sul ruolo guida di uno Stato autoritario. La competizione tra questi due modelli è il principale paradigma di interpretazione dell'economia globale e, in definitiva, del mondo contemporaneo.
Come tutti gli schemi, anche quello di Milanovic può risultare riduttivo della complessità del mondo in cui viviamo. Ma ci aiuta a capire la rilevanza della posta in gioco: non si tratta "solo" di salute e lavoro, ma anche di libertà e democrazia. Dalla crisi finanziaria e poi economica degli anni Dieci di questo secolo, il modello liberaldemocratico occidentale è uscito indebolito nella competizione con quello asiatico del capitalismo di Stato. Anche perché ha faticato molto a garantire sia lo sviluppo che l'uguaglianza. L'affanno col quale le società europee e occidentali stanno gestendo la crisi da Coronavirus alimenta i timori che gli anni Venti possano registrare un'ulteriore revisione a nostro svantaggio dei rapporti di forza tra i due modelli.
È per questo che ci serve qualcosa che assomigli ad un nuovo Concilio. Per superare i contrasti tra di noi. E per ripensare, rinnovare e rilanciare il modello sociale e democratico europeo.