Dopo la Germania, è l’Italia il paese nel quale, trent’anni fa, il crollo del Muro di Berlino ha avuto le maggiori conseguenze. Se prima di quell’evento la Germania era divisa in due Stati dalla cortina di ferro che separava l’Europa libera e democratica da quella occupata dall’Unione sovietica, l’Italia era divisa in due da una frontiera politica e ideologica, certo meno dolorosa di quella fisica subita dai tedeschi, ma per molti aspetti non meno problematica.
Giorgio Tonini, 9 novembre 2019
Per più di quarant’anni, dal 1947 al 1989, il sistema politico italiano era stato dominato dalla questione comunista: come gestire, in un paese democratico, saldamente collocato in Europa, amico e alleato degli Stati Uniti d’America, l’anomalia rappresentata dalla solida egemonia sulla sinistra del più grande Partito comunista dell’Occidente, culturalmente autonomo e ricco di tratti originalissimi, e tuttavia organicamente connesso al sistema di alleanze costruito dall’Urss. Una contraddizione che avrebbe potuto dare origine, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, ad una se possibile ancor più sanguinosa e devastante guerra civile, dalla quale probabilmente il nostro paese non si sarebbe più rialzato. Se ciò non accadde, se il confronto anche aspro ha saputo mantenersi dentro l’alveo della convivenza pacifica e della competizione democratica, lo si deve alla statura degli uomini che furono chiamati a governare un processo così delicato e complesso: prima Degasperi e Togliatti, poi Moro e Berlinguer. Proprio la tragedia di Moro (e cinque anni prima l’attentato a Berlinguer in Bulgaria), culmine di una lunga stagione di stragi terroristiche nere e rosse, è lì a testimoniare quanto il pericolo di una deflagrazione del paese fosse grave e incombente.
Grazie a quegli uomini, l’Italia ha scongiurato la catastrofe. Nei confronti della loro grandezza, è cosa buona e giusta nutrire sentimenti non solo di riconoscenza, ma anche di nostalgia. Non c’è invece nessuna ragione per avere nostalgia dell’Italia prima della caduta del Muro e della politica che quella divisione in blocchi contrapposti aveva prodotto. L’Italia ha infatti pagato (e continua a pagare) un prezzo altissimo per quella anomalia: che ha impedito una normale alternanza al governo tra formazioni di centrodestra e centrosinistra ugualmente legittimate e affidabili; ha diviso i riformisti e li ha costretti in una condizione di minoranza nei rispettivi partiti, sia di governo che di opposizione; ha quindi ostacolato e indebolito quelle riforme economiche e sociali, quella modernizzazione del nostro sistema produttivo e dei nostri apparati pubblici, che avrebbero reso l’impetuoso sviluppo del dopoguerra meno ingiusto e meno disordinato, meno esposto a malattie croniche come il ritardo del Mezzogiorno, la vastità dell’economia sommersa e illegale, il nanismo delle imprese, la dimensione soffocante del debito pubblico.
Non c’è insomma nessuna età dell’oro da rimpiangere. Il lascito della Prima Repubblica, accanto alle tante luci, è pieno di ombre. Insuperabile per lucidità l’analisi che ne fece un grande “trentino prestato all’Italia”, intervenendo nel dibattito sulla fiducia all’ultimo governo Andreotti, due anni dopo la caduta del Muro e alla vigilia del terremoto finanziario, politico e giudiziario del 1992: “i problemi della finanza pubblica – osservava Beniamino Andreatta – sono i problemi politici di un paese e le debolezze del sistema politico si traducono nei risultati contabili che oggi commentiamo un poco sbigottiti”.
I problemi della finanza pubblica (e dell’economia reale) italiana non sono ancora risolti, anche perché non sono state ancora superate “le debolezze del sistema politico” di cui parlava Andreatta. Sia riguardo alle istituzioni e alle regole che le governano, sia riguardo ai soggetti politici, il cantiere è ancora aperto e ricorda quelle grandi incompiute delle quali è ricco il territorio del nostro paese.
Le transizioni infinite, si sa, alimentano la voglia di tornare sui propri passi. E infatti assistiamo ad un moltiplicarsi di iniziative diverse e spesso contraddittorie, che hanno in comune la testa rivolta all’indietro: più proporzionale, più partitini, più centri e centrini, che mascherano la vacuità e talvolta la strumentalità dei contenuti con l’equidistanza da vere o più spesso presunte estreme.
Perfino a Trento, con involontaria comicità, si arriva a presentare la giunta Andreatta, per carità criticabile come tutte le esperienze umane e politiche, come una giunta “troppo di sinistra”, che avrebbe bisogno di un riequilibrio al “centro”. Parole vuote, lontane mille miglia dalla concretezza dei problemi e delle sfide del nostro tempo. Quasi si potesse essere equidistanti tra chi cerca con immane fatica e infinita pazienza, anche sentendosi e sapendosi inadeguato e certo non autosufficiente, di costruire la Casa comune dei riformisti, spesso dovendo guardarsi dal fuoco amico, da chi demolisce la notte quel che si è costruito di giorno, e una destra che quotidianamente fa appello agli istinti e ai sentimenti peggiori, incurante delle conseguenze che il diffondersi di questi veleni produce nell’animo delle persone e delle comunità.
Trent’anni fa, il crollo del Muro sanciva la vittoria storica del grande disegno di Degasperi: un disegno che aveva come avversario irriducibile il totalitarismo comunista e bolscevico, non “la sinistra”. Anzi, per Degasperi, la sconfitta del comunismo era la condizione necessaria per un pieno affermarsi della sinistra e dei suoi valori, a cominciare dal primato del lavoro. Lo dice con chiarezza una sua molto citata, ma poco letta intervista al “Messaggero”, pubblicata il giorno prima dello storico voto del 18 aprile del 1948. Un’intervista nella quale il grande statista trentino spiega il carattere liberale e democratico della sua intransigente opposizione al comunismo, nel mentre rivendica “il programma cristiano-sociale” della Dc, che definisce “un partito di centro che cammina verso sinistra”. Cammina. Verso sinistra. Altro che equidistanza. Verso, sono ancora parole di Degasperi, “un laburismo e una democrazia sociale, corrispondenti all’ispirazione storica della nostra civiltà e alle caratteristiche naturali del popolo italiano”. Se vogliamo (e dobbiamo farlo) guardare indietro, è solo per continuare a camminare.