Dall’insegnante all’operaio, dall’autotrasportatore all’albergatore, dall’imprenditore all’agricoltore, non vi è categoria della società che non abbia “convenienza” nell’appartenenza all’Unione Europea.
Elisa Filippi, "Democratica", 30 maggio 2018
Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, diceva Agatha Christie.
Ebbene vi sono tre 40% nella storia recente dell’Italia che, dal mio punto di vista, fanno una prova, ovvero provano l’esistenza di un polo di base che per orientamento e prospettiva esiste nel nostro Paese. Un polo che ci è più utile descrivere in funzione del futuro che del passato e che possiamo considerare non un punto di arrivo, ma una base di partenza.
I primi due 40% sono dati elettorali: dal consenso ottenuto dalla prospettiva riformista “Europa cambia verso” delle elezioni europee, al 40% di italiani che hanno sostenuto la proposta di modernizzare l’Italia con la riforma della seconda parte della Costituzione, fino ad arrivare ad un dato più recente, culturale, che è quello del circa 40% di italiani, ma è una percentuale storicamente dinamica e potenzialmente molto più elevata, che secondo eurobarometro riconoscono come positiva l’appartenenza all’Unione Europea.
Che questo polo coincida completamente con il Partito Democratico non è detto, quello che è certo è che non si esaurisce in esso. Se è così, il nostro compito oggi è quello di trasmettere una visione chiara e con essa rivolgerci senza ambiguità a tutti gli italiani.
Dall’insegnante all’operaio, dall’autotrasportatore all’albergatore, dall’imprenditore all’agricoltore, non vi è categoria della società che, magari anche per argomenti differenti, non abbia “convenienza” nell’appartenenza all’Unione Europea. Nelle prossime settimane, sarà interessante confrontarsi per rendere questo dato ancora più chiaro.
Di più. Rovesciando la prospettiva, dovremo rendere esplicito anche il costo della non Europa. Quanto ci costa la mancata cooperazione europea in alcuni settori?
Pensiamo al coordinamento delle politiche fiscali: secondo un rapporto realizzato dal centro studi del Parlamento Europeo il costo totale derivante dallo scarso coordinamento delle politiche fiscali è di circa 31 miliardi di euro all’anno. Ancora meglio lo possiamo comprendere nelle politica di sicurezza e difesa dove il costo della mancata cooperazione, da poco timidamente avviata attraverso lo specifico fondo europeo, non è solo economico, (si stima di almeno 26 miliardi di euro all’anno), ma soprattutto di efficienza complessiva del sistema, protezione delle frontiere, sicurezza dei cittadini.
L’impatto diretto sulle famiglie in termini di sicurezza dei risparmi e aumento dei tassi di interesse per i mutui è stato ricordato dalla quasi totalità degli economisti in questi giorni. L’uscita dall’euro aumenterebbe i prezzi di beni e prodotti: ci costerebbero molto di più le materie da importare, e tra queste anche materie prime fondamentali come il petrolio (e dunque la benzina).
Tanto che ciò che rende il nostro Paese finanziariamente più “vulnerabile” non è l’Europa, ma l’enorme debito pubblico accumulato negli anni che rende l’Italia particolarmente esposta ai mercati.
Da ultimo, ma non per ultimo dobbiamo avere il coraggio di presentarci agli italiani sfatando un altro tabù, quello della difesa dell’interesse nazionale. L’adesione all’UE non è l’annullamento dell’ interesse nazionale, al contrario è il modo migliore per tutelarlo a patto di avere una classe dirigente, amministrativa e imprenditoriale non solo politica, che sia in grado di definirlo e di promuoverlo.
Tutelare la sovranità dell’Italia significa rafforzare il suo peso in Europa, non uscirne.
Se vogliamo che l’Italia torni ad essere protagonista, abbandoniamo ambiguità ed eccessi di retorica, attrezziamoci, con umiltà, di visione e di pragmatismo.